Una componente fondamentale che regola la nostra vita psicologica riguarda come viviamo ciò che deve avvenire, il futuro che ci deve raggiungere o che vorremmo raggiungere. È il nostro rapporto con l’attesa, con ciò che non ci appartiene ancora e che viviamo nell’esperienza della sua mancanza, in attesa che si realizzi.
Nell’attesa si sperimenta il confine su cui si affaccia il nostro limite esistenziale: di non poter possedere interamente il futuro. Nell’essere in attesa si è uno stato di debolezza, costretti a un’impotenza, privi della possibilità di controllare totalmente come il futuro diventerà un presente da affrontare. L’attesa costringe a trattenersi in un tempo preliminare, un tempo gracile, consegnati a ciò che deve succedere,
Ognuno vive l’attendere a modo suo, perché è diverso in ognuno il vissuto psicologico di un’esperienza di subalternità a un tempo che non si possiede, ridotti a una durata nel corso della quale si è definiti da ciò che si sta aspettando. Un tempo che può essere tempo di preparazione, di pazienza, di sogno, di serena sospensione, piuttosto che un tempo impaziente, sofferente e sofferto. Per questo saper attendere, come capacità di non patire l’attesa, di non soffrirla, impegna una disposizione del cuore, nel sostare in un tempo incompleto, ostaggi di un accadere di cui se ne può solo la speranza.
Ed è proprio questa condizione di tempo inattuale che rende l’attesa una gravidanza, poiché il tempo in cui si è in attesa prolifera di immaginario, emozioni, bilanci, progetti, desideri. L’esperienza dell’attesa è un’esperienza paradossale, benché sia concentrata sul tempo potenziale del dopo avviene nel qui e ora del tempo presente. E nel qui e ora che l’attesa produce la sua generativa manifestazione psicologica, perché attendendo si dà vita al futuro, alla sua pensabilità, alla sua rappresentazione. Il futuro esiste solo nell’attesa qui e ora dove viene sognato, temuto, preparato.
Osservando la nostra relazione con il tempo che deve accadere pare avvenuta una trasfigurazione: invece che il vissuto dell’attesa si è propagato quello dell’astinenza.
Quando ci si abitua a un presente che si consuma istantaneamente, sempre colmo di un tempo senza durata e sovrabbondante di eccitazione emotiva, costantemente e immediatamente connesso, stimolato, coinvolto, l’adattamento psicologico ha prodotto una rimozione dell’attesa, della necessità esistenziale dell’attesa. Domina un presente che ha soppresso l’attesa e con essa lo stato di vulnerabilità e di debolezza in cui ci si trova quando si attende il futuro.
In un presente senza durata, liberato dal futuro grazie all’incessante possibilità di soddisfazioni, l’attesa viene vissuta con fastidio, insofferenza e irrequietezza, invece che come un tempo necessario alla scoperta, alla rivelazione.
Sicché all’attesa si è sostituita l’astinenza. Lo stato di irritazione per il protrarsi di un tempo privo di esperienze di eccitazione emotiva. Mentre nell’attesa vi è un tempo che richiede di durare, nell’astinenza vi è un tempo che sta durando troppo. La dipendenza dal presente, dalla soddisfazione immediata del presente, rende impazienti (l’opposto di chi sa attendere), nervosi e insoddisfatti quando trascorre il tempo senza che si siano sperimentate esperienze di fermento emotivo. Privato dell’attesa il futuro perde spessore e densità, perde il lavoro del cuore che nel futuro proietta sé stesso, rappresentandolo e preparandolo.