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GianMaria Zapelli elsewhere

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Il paradosso della nostra autenticità

Il paradosso della nostra autenticità

“Essere quel che sono veramente.” Un mantra, una rivendicazione esistenziale ineludibile, che sembrerebbe facile da capire per ciò a cui rimanda, l’autenticità, la propria. Osservando meglio ci si trova in un ginepraio, a partire da un raddoppio dell’essere – essere quel che sono – e a seguire una parola da brividi, tanto è inaccessibile: veramente.

Perché l’autenticità indica quell’essere che siamo elevandolo alla sua essenza, a ciò che ci appartiene più profondamente e identitariamente. Stabilendo così una differenza esistenziale tra ciò che ci rende veri oppure falsi.

Le parole appaiono facili da capire e da credere, ma se le prendiamo con cura ci smarriscono. E l’essere veri, ovvero autentici, diventa enigma da scoprire. Poiché non significa essere spontanei, agendo senza interruzioni di coscienza. O essere ciò che preferiamo essere. Oppure essere quel che vorremmo. Essere quel che sono veramente ci impegna in atto di totalità, di interezza con noi stessi. E questa capacità di completezza che stabilisce quanto siamo veri. Mentre diventa falso credere di essere senza includere tutto ciò che siamo.

Degli esempi. Mentire per timore, per opportunismo, o solo per pigrizia, ci allontana dalla nostra autenticità, oppure fa parte di ciò che siamo anche questa insincerità? Rimanere cauti e un po’ freddi alla prima conoscenza di qualcuno appartiene di meno alla nostra autenticità di quanto invece lo sia la nostra calda apertura, una volta rassicurati dal tempo di frequentazione trascorso? La reazione aggressiva quando ci sentiamo incompresi è inautentica, rispetto invece all’autenticità della serenità con cui ascoltiamo chi ci fa sentire ascoltati?

Insomma, essere quel che sono veramente è un programma ciclopico. Perché psicologicamente irraggiungibile e interminabile. Perché siamo sempre molto di più di ciò che abbiamo capito di includere e accogliere nell’identità che ci appartiene. Per questo realizzare la propria autenticità non è un risultato definitivo a cui poter arrivare. Perché vi è sempre qualcosa della verità che siamo che può essere scoperto. 

Allora è il modo con cui cerchiamo di realizzare la nostra autenticità che ci assicura di esservi vicino, ancorché non totalmente. Non c’è un punto di arrivo, c’è solo il viaggio. Il viaggiare non è fatto da dove vai, ma da come ci vai. Quando crediamo di averlo compreso definitivamente chi siamo veramente, quando ci arrestiamo, quel che ne otteniamo è un allontanamento, perché ci stiamo separando dal dubbio, da quella condizione di cui ha necessità l’autenticità: la permanente e mai esaurita domanda: “Chi sono?”.

Ecco allora il paradosso dell’autenticità: per saper essere autentici occorre sapere di non esserlo mai totalmente. Perché essere autentici non riguarda ciò che abbiamo già compreso di noi, ma il viaggio che compiamo per continuare a comprendere chi siamo.

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