Vi sono molti modi di essere in relazione con l‘umanità che ci circonda. Anche a chi ci è del tutto sconosciuto, accanto a noi per caso. Come le due persone forestiere vicine sul nostro stesso binario in attesa dello stesso treno; o la persona accanto che sta prendendo il suo caffè al banco, mentre noi stiamo facendo lo stesso. Vicina una vita che non ci appartiene, estranea, che scorre sui suoi binari. Eppure a volte, senza averne l’intenzione, vediamo in queste vicinanze anonime qualcosa che ci colpisce: un’esitazione preoccupata nei gesti, o un timore nella voce quando si rivolge al barista.
Sono molti i modi di vivere questa separata prossimità. Ci può passare accanto senza lasciare traccia, invisibile. Il mondo che ci è vicino diventa visibile solo quando ne siamo parte. Oppure, pur senza alcuna tangibile connessione con noi, la vicinanza può suscitare attenzione, persino curiosità.
Può essere un’attenzione moralista, che pesa e giudica l’estraneità, distribuendola tra chi merita e chi merita di meno. Come può essere curiosità invadente, da appagare un bisogno di accadere nell’intimo e credere di averlo espugnato.
È facile che l’essere accanto a chi non si conosce sia orchestrato dalle emozioni, dalla loro grammatica che ci avvicina o allontana. Così sovente l’attenzione verso le persone sconosciute che si trovano accanto a noi è indirizzata dalla reazione immediata di uno stato emotivo.
Siamo circondati dalla vita che accade vicino a noi e ne possiamo essere spettatori in molti modi.
Una versione possibile nel vivere la prossimità è di saper esserne testimoni.
Saper essere testimoni è un modo di disporsi, di collocarsi, verso ciò che si ascolta e si vede. È un allineamento dello sguardo e del sentire. Si esercita sapendo rimanere accanto senza valutare, sapendo osservare senza arrivare alle conclusioni; in equilibrio con proprie le emozioni, senza farsene condizionare.
Per saper essere testimoni occorre il desiderio di cogliere l’autenticità del mondo che incontriamo. Occorre uno sguardo duplice, quello rivolto alle persone sconosciute e quello rivolto al proprio modo di guardarle. Per vigilare su come lo sguardo si trasforma in pensieri, giudizi, impressioni. Per sospendere, trattenere, ciò che nello sguardo è una fuga in avanti, verso il voler possedere ciò che vede. Essere testimoni si ottiene arrestandoci, astenendosi dal proprio mondo di convinzioni, tenendo a freno i propri stati d’animo.
Per essere testimoni, vicini al mondo che abbiamo prossimo, dobbiamo essere distanti da noi stessi. Applicare una guida alla nostra mente, per arretrare nella sola osservazione, senza identificarsi in ciò che si osserva, senza qualificarlo come piacevole o spiacevole, interessante o banale, per lasciare che ciò che si vede abbia la sua autonomia, la sua esistenza, la lontananza di cui ha necessità per essere compreso.
Tanto più siamo ingombrati da quel che sentiamo, dalle nostre valutazioni, dall’attenzione a ciò che proviamo, dai pensieri che ci conquistano criticando o approvando, maggiore è l’opacità del mondo e la sua unicità. Per essere testimoni ci occorre relativizzare noi stessi, ci occorre invalidare l’io e le sue prerogative di centralità. Nel praticare la vicinanza come testimoni adottiamo la vita e ne siamo allo stesso tempo immuni.