Da tempo la lontananza ha perduto la sua estraneità, la sua inavvicinabilità. Nel passato, la vita, la sua esistenza e la sua rappresentazione, venivano definiti anche da ciò che si sentiva e viveva come lontano. Quello spazio inavvicinabile nel quale si estendevano significati che avevano bisogno di immaginazione e inaccessibilità. Il lontano era oltre le colonne di Ercole, dove si definiva un coraggio e una discendenza di dei. Il lontano erano mondi sconosciuti, in cui costruire legami di genesi e di destino.
Oggi, che abbiamo tutto prossimo, nulla è più lontano. E’ finito il tempo della lontananza, tutto è prossimità.
A una lontananza di magie, di sogni e narrazioni è stata sostituita la distanza, prodotta dalla troppa prossimità.
La prossimità che affolla l’esistere, di comunicazioni, informazioni, connessioni, genera la distanza come lavoro permanente della psiche, che cerca di sottrarsi al soffocamento del troppo vicino. L’ascolto è diventata esperienza sovrabbondante, onerosa, tanto la prossimità richiede e preme per essere sentita, capita, letta, compresa. L’ascolto è diventata un’esperienza minacciosa, da cui difendersi. Viene anestetizzata l’empatia per tenere una distanza dall’assedio della prossimità. Di fronte all’inondazione permanente della prossimità, evitare gli altri è diventata una condizione per sopravvivere. Rischiamo di adeguarci a una privazione sensoriale del prossimo.
La costante produzione difensiva della distanza rischia così di danneggiare le capacità dell’Ascolto, di avvicinare l’Altro e la sua differenza. Senza una lontananza in cui immaginarci e da ascoltare abbiamo una prossimità da cui allontanarci e proteggerci.