Quanto siamo soddisfatti di come trasformiamo in parole i nostri stati d’animo, la varietà di chi siamo e di ciò in cui crediamo? Ci rispecchia la nostra epifania nei vocaboli che usiamo, nel linguaggio a cui ricorriamo? A volte vi è un disagio identitario afono: di non saper tradurre l’informe palpitare del nostro sentire, credere, amare nella precisione delle nostre parole.
Anche se il nostro mondo interiore arriva negli occhi e nelle emozioni senza bisogno di nomi, aggettivi e verbi, per prenderne possesso, per emanciparci del solo automatismo della percezione e del sentire, per diventare artefici della nostra traccia esistenziale, ci occorre il linguaggio, ci occorrono le parole, riunite, attraverso la grammatica, in discorso.
Possiamo provare un sentimento d’amore, perché assuma la forza di un progetto di vita sono indispensabili i vocaboli. Sono e saranno le specifiche parole che troveremo, per descriverlo e dargli forma oltre il vago sentire, a deciderne il futuro.
È il linguaggio che produce la concretezza dell’esistenza, spiccandola dalla passiva reazione, dall’opaco dell’accadere. Non a caso, in tutte le religioni il verbo è atto divino di generazione della vita, delle leggi, della coesistenza umana. Non vi è creazione per solo stato d’animo. Occorrono parole perché la vita abbia confini e perché sia possibile dare a sé stessi un’identità, un contenuto da distinguere e padroneggiare, per non rimanere con una sfuggente percezione dei propri stati emotivi. Poiché io parlo dunque sono.
Il linguaggio ci possiede, più di quanto lo possediamo. Non è riducibile a strumento, a contenitore al servizio di un contenuto, veicolo al servizio della meta. È contenuto il concreto, udibile o leggibile linguaggio utilizzato. Pensare e parlare (o parlarsi) sono la stessa cosa. Come il disegno di un cartone trasferito sulla parete e i colori che gli danno vita, con la loro materica stesura, sono la condizione di un affresco, così le parole a cui ricorriamo sono la condizione per dar vita alle nostre idee e alla realtà come la conosciamo. Come ci si descrive, attraverso il linguaggio a cui ricorriamo, definisce e delimita esattamente quel che sappiamo e possiamo affrontare di noi stessi. Quel che capiamo lo capiamo attraverso le parole. Come la potenza di un affresco nel raccontarci il suo contenuto è l’esito di come l’artista ha padroneggiano la preparazione e la stesura del colore, la composizione e l’originalità dell’impianto.
Sicché, per comprendere quanto, ma soprattutto come ci si conosca, ci occorre interrogare i vocaboli che utilizziamo, la precisione che abbiamo nel saper descrivere quel che ci tocca, la ricchezza con cui diamo forma ai nostri pensieri attraverso i nostri verbi e i nostri aggettivi. Per questo merita educazione la parola: all’accuratezza, all’originalità, all’eleganza. È una disciplina esistenziale.
Un genitore parla con il figlio: – Come è andata oggi a scuola? -. – Bene -.
Un altro genitore invece: – Come è andata oggi a scuola? -. – Bene – – Mi piacerebbe sapere cosa vi è appeso alle pareti nella tua aula e cosa ti piace. –
“In fin dei conti l’unica patria reale, l’unico suolo sul quale possiamo camminare, l’unica casa in cui possiamo fermarci e trovare riparo è il linguaggio, quello che si impara già da piccoli.” Michel Foucault