Non si nasce soli, ma sempre insieme. Si nasce con un legame e un desiderio imperativo di legame, a partire da quello con la madre. Molte ricerche neuroscientifiche hanno ampiamente dimostrato la nostra vocazione cerebrale alla comunità, alla coesione, al noi. Ma altrettanto inevitabilmente incontriamo e sperimentiamo la solitudine.
Così possiamo considerare la solitudine come l’esperienza di un noi che non realizziamo, di una disposizione a esistere insieme che non ci accade. Come avere gambe e venire azzoppati.
Incappiamo dunque nella solitudine, la impariamo, strada facendo, quando ci manca il noi sotto i piedi, quando il nostro cercare altri e l’altro rimane ferito, ignorato, trascurato. Così la nostra dotazione naturale di socialità e di appartenenza, il nostro bisogno originario di essere insieme, ci rivela e ci insegna anche il suo destino di patimento e il suo carico di delusioni.
La solitudine non è un’esperienza privata. Non è solo il prodotto di una storia psicologica personale, individuale e solitaria. E’ anche un prodotto collettivo. Sentirsi soli riguarda anche come viviamo e cosa ci mette a disposizione il mondo che abbiamo intorno, con la sua cultura, con i valori che adotta e propaga, con le appartenenze che premia o rifiuta. Così la carenza di “like” può cagionare uno spasimo di solitudine, oppure la mancanza ripetuta di risposte a una mail o un sms. La solitudine è anche un prodotto collettivo e culturale perché il contenuto del presente che si vive influenza il modo in cui il noi prende vita e soprattutto cosa lo spaventa, lo allontana, lo riduce.
Pare molto di questo tempo la lontananza prodotta verso la differenza. Senonché se si tiene a distanza la differenza si perde capacità di comprenderla. Perché senza frequentazione, senza una vicinanza che vede e comprende, senza esplorazione curiosa, la differenza è ridotta a categoria generica e fatalmente a pregiudizio. La differenza allontanata diventa incompresa estraneità.
Ma più la nostra vita sociale produce territori di lontananza, di esclusione ed estraneità, maggiore diventa la solitudine possibile, poiché l’erosione collettiva diminuisce il territorio possibile del noi. Con la conseguenza di ridurre e limitare il noi e i legami allo spazio ristretto e autoreferenziale delle sole persone amate, degli amici e delle conoscenze che hanno identici modi di sentire, di pensare e di vivere.
L’individuo separato o è bestia o è dio, scriveva Aristotele. L’odierna crescita smisurata del territorio della solitudine non ha prodotto un persona sola, ma un individuo isolato. Nell’epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un “like”, l’isolamento ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube di atomi singolari.
L’isolamento è uno stato difensivo, la risposta del cuore che si difende dal riconoscere la solitudine come una perdita. L’isolamento è un processo di elusione e rimozione della solitudine. Nell’isolamento si è anestetizzata la riduzione e la perdita del noi possibile, con il sentimento di solitudine e di ansia che potrebbe portare con sé. Nell’isolamento si crede di poter fare a meno di un noi più vasto del piccolo mondo di legami a cui ci si è abituati, magari soddisfatti del noi digitale.
Senonché quando si è isolati si smarriscono le nostre capacità generative, evolutive e immaginarie, che hanno bisogno di un noi plurale, nel quale cercare legami, vincendo il timore della differenza e quello di poter incontrare la solitudine
Così rifugiati nell’isolamento siamo popolo e non comunità. Una somma di egoismi senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere. Perché è la comunità, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico si regge sull’isolamento.
Ma per arrivare alla comunità dobbiamo passare attraverso il riconoscimento della differenza, di un noi che la include, e del rischio della solitudine. Dobbiamo ritrovare il dolore e la perdita che si vivono nella solitudine, per incontrare il valore del noi, di un noi largo e aperto a chi è differente. E la solitudine si impara con il coraggio di amare le persone. Ma dove vi è solitudine vi è un cuore che si è spinto oltre.