D’accordo, la pazienza è una virtù e l’impazienza è deprecabile. Già da Giobbe, capace di accettare piuttosto serenamente le tante e penose ingiunzioni divine. Frenare la reazione emotiva, l’intolleranza, l’insofferenza nell’esperienza faticosa di sentirsi sottoposti al sopruso del proprio tempo o dell’espressione del proprio pensiero, ma anche alla tirannia del dilungarsi logorroico, al treno che ritarda, alla coda che procede inesorabilmente lenta.
Pazienza è un merito dell’autocontrollo, dell’intelletto ragionevole contro le emozioni reattive e irritate, di ciò che è meglio fare contro ciò che sarebbe inutile, ovvero fuori controllo. Perché assegnare virtù alla pazienza è epica del buon senso, che richiede di trattenere e ammaestrare l’impulso, il nervosismo, la perdita di sé.
D’accordo occorre pazienza, per non declinare nell’aggressività, nello sgarbo, nell’intolleranza. Occorre pazienza per elevare la gentilezza a stile, perché la gentilezza è compagnia che ne ha la medesima stoffa, quella della misura, del gesto contenuto e accorto.
Ma diamine! Pazienza anche quando si ascoltano parole senza attenzione all’interlocutore, pazienza anche di chi si dilunga oltremodo, senza badare se sia interessante quel che dice? Pazienza anche quando la maleducazione è arroganza senza cura degli altri? Pazienza anche quando si potrebbe agire, immediatamente, senza lasciare altro tempo alla dilapidazione, al furto, al saccheggio, all’inquinamento?
Certo è da condannare l’impazienza, perché opposta alla virtuosa arrendevolezza e remissività. Ma al diavolo la riprovazione, il giogo della pazienza, chi se frega, perché lo scalpitare che viene dalle emozioni possiede a volte del buono, di non voler sprecata neppure un’oncia di tempo, troppo prezioso per lasciarlo nelle mani di un logorroico.