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GianMaria Zapelli elsewhere

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Sapersi adattare: virtù e prigioni

Sapersi adattare: virtù e prigioni

“Il fattore più importante nella sopravvivenza non è né l’intelligenza né la forza, ma l’adattabilità.” (C. Darwin).

Come sappiamo, la capacità di adattamento riguarda precise condizioni: quando muta l’ambiente con cui si è in relazione per ottenerne sopravvivenza e benessere. Ci si adatta, mutando atteggiamenti, comportamenti e modi d’essere, per ottenere un preciso risultato: produrre nuovi comportamenti spontanei, che rimpiazzano o si aggiungono a quelli già posseduti, per interagire con i cambiamenti che sono avvenuti. Adattarsi significa generare nuove routinizzazioni, rimodulare le abitudini che si possiedono e ci possiedono.

Sovente ci si può adattare senza fatica, il che significa senza alcun sforzo consapevole. Nuove abitudini si insediano nel nostro quotidiano senza provocare antagonismi e opposizioni nella nostra mente. Altre volte invece l’adattamento richiesto costringe alla consapevolezza, alla coscienza. Imparare una lingua, ridurre il consumo di cibo, abituarsi a un nuovo capo. Cambiamenti necessari per adeguare la propria sopravvivenza. In questi casi adattarsi però è fatica, a volte molta. Perché alle nuove abitudini di cui si avrebbe bisogno si oppongono tenacemente le vecchie abitudini. Si può perciò dire che una misura dello sforzo di adattamento sia quanto debba essere consapevole lo sforzo di cambiamento necessario. La fatica psicologica di contrastare abitudini automatizzate che si possiedono.

Tanto nell’adattarsi a una realtà mutata si possono prendere scorciatoie, pur di avvalersi della rassicurante routinizzazione inconsapevole della mente. Pur di alleggerirsi dal logoramento psicologico dell’autocontrollo, dalla volontaria fatica necessaria per adeguarsi ai mutamenti. Per questo l’esito dell’adattamento non è sempre un’evoluzione, un arricchimento delle proprie qualità. Un proverbio anonimo recita: “Se non riesci ad uscire dal tunnel, arredalo.”

Sicché adattarsi non è sempre migliorarsi, evolvere. Può trasformarsi in depauperazione, si potrebbero perdere valori, sogni, desideri, persino abilità e conoscenze. 

Ogni altra vita biologica nella relazione con i cambiamenti ha a disposizione solo l’adattamento routinizzato, pena l’estinzione. L’essere umano ha a disposizione un dilemma, a volte persino drammatico: può interrogarsi e scegliere i modi con cui adattarsi ai cambiamenti della realtà.

Così, si può lasciare l’adattamento ai meccanismi inconsapevoli della mente, quando non esige consapevolezza. In fondo, una delle fondamentali strategie del mondo economico e politico è di indurci a cambiare – gusti, pensieri, scelte – senza fatica. Generare corrente, sapendo che poi viene seguita. 

Oppure si può erigere una reazione emotiva, un antagonismo al cambiamento, guidato dall’ostilità, dalla rabbia, dal desiderio di contrapporsi, dal gusto di sentirsi fuori dal coro. Affermando in questo dissenso il potere sulla propria vita di ciò che sta cambiando, nel qualificarci con il nostro “no” ad esso. 

Oppure si potrebbe cercare nei mutamenti della realtà intorno a noi, che irremissibilmente avanzano, come possano diventare parte della nostra vita per esaltarla, per renderla più ricca, per renderla migliore. Senza mai subordinare il proprio cambiamento adattivo al peso della fatica che richiede. Perché quasi nessun cambiamento in cui siamo coinvolti è in sé pessimo o eccellente, lo diventa per quello che ne facciamo, consapevolmente oppure no.

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