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GianMaria Zapelli elsewhere

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Altruismo e generosità: quando l’io sembra farsi da parte, ma non è così

Altruismo e generosità: quando l’io sembra farsi da parte, ma non è così

Sembrerebbe che vi siano gesti nei quali l’attenzione all’Altro totalizzi il pieno di attenzione identitaria. Aiutare chi ne ha bisogno, persino mettere a repentaglio la propria vita per portare soccorso a qualcuno, facilmente appaiono come manifestazioni nelle quali l’ego retrocede, se non addirittura svanisce, sostituito del dislocamento di sé nel bene dell’Altro.

Ancorché si possa credere, in totale buona fede, di vivere delle azioni nelle quali non abbiamo noi stessi come beneficiari, anche se ci pare indubbio che la nostra generosità sia priva di ogni considerazione ai nostri bisogni, è una convinzione che si affida ai propri pensieri, credendoli esenti da omissioni. In realtà, è impossibile sottrarsi a sé, escludere dalla nostra vita, anche solo occasionalmente, il personale tornaconto psichico, attraverso una o più delle nostre necessità, di proteggersi, gratificarsi o riconoscersi. È neurobiologicamente impossibile, prima ancora che psichicamente, sottrarsi all’imperativo che tutto ciò che si vive abbia anche per sé stessi un beneficio. Ricordandoci che la nostra psiche considera benefici per il nostro io tornaconti psicologici che frequentemente si sottraggono alla nostra coscienza.

Aiuta a ricomporre sé stessi con completezza, ritrovando le proprie necessità egoiche anche nella generosità o nell’altruismo, scardinare un presupposto errato, che ostruisce una scoperta più accurata del proprio mondo interiore: credere che via sia nella natura umana una contrapposizione tra bisogni dell’ego e i bisogni dell’Altro. È una visione culturale, non neurobiologica e neppure psichica, sostenere che nella sua vocazione a realizzarsi l’io debba scontrarsi con la realizzazione dell’Altro. Che la realizzazione del bene per sé si comprometta, dovendo accettare una mediazione, quando deve considerare e includere la realizzazione del bene dell’Altro. Da cui, per essere pienamente e autenticamente generosi occorre come requisito impedire all’io di farsi sentire. È un prodotto della cultura occidentale, di matrice giudaico-cristiana, la visione di un soggetto rinchiuso nella sua singolarità monadica, la cui natura egioca è fondamentalmente da riscattare e salvare con una rinuncia a sé. A cui occorre quindi un dualismo che oppone io/Altro, per sostenere il valore liberatorio e premiante della rinuncia al proprio io. Perché sia possibile emendare la colpa dell’individualità con il premio dell’abbandono di sé.

Liberati dal presupposto che egoismo sia sinonimo di colpa, potremmo allora cercare di chiarirci cosa vi sia che ci occorre vivere, che ci dà risorse, energia, gratificazione, senso nella generosità e nell’altruismo. Aiuto e benefici che altri ottengono grazie a noi che non perdono di nulla del loro valore e della loro bellezza se anche a noi fanno bene e ci occorrono.

Sono numerose le ricerche neurobiologiche che mostrano quanto l’attenzione all’Altro, la cura verso il suo benessere, siano radicati nelle nostre strutture cerebrali sin dalla nascita. Quel che allora cambia non è quanto siamo capaci di rinunciare a noi stessi per essere generosi, ma, all’opposto, quanto di sé stessi, per realizzarsi, ha bisogno della generosità. E dunque ben venga che il motore della generosità, con i suoi benefici per l’umanità, sia così potente essere un bisogno egoico.

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