Solitamente non è un tarlo che assilla incessantemente. Si presenta al nostro sentire per lo più inaspettata, come un ospite che bussa alla porta di sera mentre sei a tavola, al termine del tuo tran tran quotidiano. A volte si affaccia, quasi clandestina, una domanda semplice e allo stesso tempo disorientante, turbatrice: Che senso ha ciò che vivo?
Molti hanno trovato una risposta più che soddisfacente, tanto da non doverci più tornare sopra. Come aver sistemato la soffitta, sapendo di non doverla più aprire, salvo occasionalmente. Con una certa frequenza il senso che si trova e appacifica si avvale del divino, del credersi destinati ad altro, che non sia solo la vita terrena.
Vi è anche chi tenacemente crede debba esserci un senso per l’esistenza senza affidarsi all’itinerario della religione. Da saper innalzare il quotidiano dalla sua immanenza, per illuminarne i contenuti faticosi, routinari, dimessi, ordinari o lacerati. E riesce a trovarlo e piantarlo ben chiaro e stabile nella propria vita: l’amore per la famiglia, una vocazione umanitaria, o anche solo di primeggiare in qualcosa.
In alcuni accade, invece, di non riuscire a pacificare l’inquietudine della domanda, di trovarsi faccia a faccia con il senso come fosse un baratro, su cui si è affacciati cercando un ponte, che arrivi a scavalcare la voragine, con dentro il vuoto di tanto impegnarsi, l’insensato da sopportare, la solitudine da patire, i rospi da ingoiare, e quel che si ripete e ripete, rimanendo sovente sulla banchina, senza sapere se un treno passerà.
Avere un senso in cui riassumersi non è un’esigenza quando si è felici, perché la gioia non ha necessità di pensiero e scaccia l’interrogativo. Il senso diventa urgente quando occorre spiegarsi il dolore, la perdita, la povertà (in ogni forma). Quando preme sulla pelle il desiderio di essere di più, di non arrendersi ai fatti, alle lacrime, a relazioni inaridite, a un lavoro per necessità.
La psicologia inserisce una deriva alla domanda che ci potremmo fare sul senso della nostra vita. Un ceppo che potrebbe imbrogliare le carte. Perché la psicologia ci suggerisce che prima del senso avvengono le esperienze, le ferite, i desideri, le lacune. Prima arriva l’infanzia e la sua vita indifferente a un bisogno di senso, ma totalmente permeabile al senso che la percuote. Prima di un pensiero che organizza il quotidiano e lo eleva a un’idea. In altre parole, il nostro linguaggio, i pensieri che danno forma alle ragioni della nostra vita sono incuneati nell’inconscio, in quella nostra identità che segue un senso, ma non è il senso che cerchiamo, e sovente neppure sappiamo. Se fosse così, e sembrerebbe che lo sia, allora diventa ancora più complicato affrontare la domanda sul senso della propria vita. Perché già la domanda è viziata dalle cicatrici che la modellano, dal mondo interiore che ha già ben scritto diverse risposte possibili.
Certo, potremmo convincerci che l’essere umano è destinato a una libertà, e quindi a un senso, che ne spieghi l’esistenza oltre le sue ombre e le sue caverne. Potremmo credere che ci sia consentito di trovarci una risposta pulita, intonsa, smacchiata dal nostro destino psicologico. Una risposta che pensa l’essere umano al di là e sopra la sua traccia inconscia.
Oppure potremmo pacificarci con la nostra inquietudine. Non per capitolate, per arrenderci all’impossibile di una risposta soddisfacente. Anche se ci rimane costante la percezione di un senso che ci si sottrare, un’eco che percepiamo ma che non riusciamo afferrare, possiamo fare qualcosa di straordinario e paradossale: continuare a cercalo. Perché in questo modo, solo con questa inquieta e mai appagata ricerca, che avremo apparizioni, squarci, lampi di senso. Abbastanza per arrivare alla prossima volta che ci chiederemo: Perché mai esisto?