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GianMaria Zapelli elsewhere

Un contributo psicologico
per una vita consapevole,
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La depressione che a volte ci prende

La depressione che a volte ci prende

A volte, entrando in noi alla chetichella, prende forma una tristezza. Prima accennata e poi eccola lì, quasi sorpresi, nella fatica a trovare un sorriso, nelle lacrime che parrebbero cercare gli occhi, un po’ di depressione. Senza una ragione che ci sia chiara, senza un fatto a cui risalire, senza un terreno da cui vederla spuntare. Anche se è una tristezza che allaga, nella quale ci trova immersi, senza parole.

Certo non si tratta del disturbo depressivo, che è una patologia psichiatrica disabilitante,  che inaridisce, spolpa il cuore, consumando l’animo e a volte la vita stessa. Ma vi sono anche forme di depressione episodica, di umore singolarmente triste, non riconducibili a sintomatologie psico-neurologiche.

In questa forma che rimane in uno stato controllato e circoscritto, la depressione potrebbe essere un’esperienza persino benefica. Nel languore mesto e disamato, nella stanchezza che reclama riposo, nella difficoltà a rimanere concentrati, nel sentimento di incertezza e nella mancanza di desiderio, nell’irritabilità ingiustificata, nell’autosvalutazione e nella mancanza di fiducia in sé.

Ma cosa potrebbe esserci di utile, psicologicamente, in tutto questo?

La tristezza della depressione è una forma di chiamata a sé, di resoconto personale. Nello stato di ripiegamento della depressione, che toglie energie, che spegne, che rintana in un vissuto di perdita, di smarrimento, quel che si sta producendo è un distacco, un allontanamento. Attraverso la depressione ci liberiamo, ci sciogliamo da noi stessi. Prendiamo un temporaneo commiato, dal dover essere performanti e puntuali nelle scadenze, dallo sforzo di considerate tutto, capire tutto, vigilare, dall’autocontrollo nel cercare di essere gentili e garbati, dal dover credere in noi stessi, dal dover affidarsi a noi stessi e non rimanere indietro. Nella depressione andiamo alla deriva, lasciandoci cullare nel mare della tristezza. La depressione è forse lo stato più prossimo alla morte, nella sua versione liberatoria, conclusiva, terminale.

Sicché, nell’incalzare della vita come performance, efficienza, successo, impegno la depressione rivendica una versione disimpegnata, assapora la seduzione della morte, di quello stato d’essere  nel quale non vi è più un essere di cui occuparsi e preoccuparsi. Come una compensazione per prendere fiato, per interrompere, per chiudersi in sé senza altro che una mesta tristezza, che ci occorre per legittimare la fuga, il distanziamento, il vuoto di cui abbiamo bisogno. La tristezza diventa così in alcuni casi il mezzo per consentirsi di andarsene via da tutto. Che non potremmo fare con un sorriso e allegramente, perché verremmo condannati di menefreghismo, di disimpegnarci dalle responsabilità, di egoismo. La tristezza senza ragioni, inspiegabile, invece autorizza sé stessi al ripiegamento. Il dolore legalizza il proprio ritiro, la fuga.

Pertanto, nei casi in cui si venisse toccati dalla depressione, nei casi nei quali sappiamo vedervi uno stato episodico, senza che assuma una forma debilitante, forse è benefico conservare per po’ questa compagnia nel proprio cuore, senza drammatizzarla o sentirsene penalizzati. Vi sono tristezze che meritano di essere godute come una vacanza. Una vacanza da sé stessi.

 

 

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