Sovente, nella storia umana, la manifestazione delle emozioni è stata oggetto di attenzione e indirizzo sociale. Non considerate solo un fatto solitario e individuale.
Nella Grecia antica abbandonarsi alle emozioni era disdicevole. Era virtuoso invece saperle mantenere nei giusti limiti, senza cedere all’hybris, all’eccesso emotivo, che sottraeva misura e controllo.
Ulisse che si lega all’albero per poter ascoltare il canto delle Sirene rivela il dilemma tra conoscenza ed emozioni. Ottenere conoscenza richiede di sapere quando le proprie emozioni potrebbero imporsi senza controllo e pregiudicarla.
In diverse società la disciplina culturale richiesta alle emozioni veniva anche compensata da espressioni ritualizzate nelle quali le emozioni potevano trovare libertà ed espressione: nell’arena, nel mondo alla rovescia del carnevale, nei sacrifici.
Sembra una caratteristica di questo presente il dilagare delle emozioni, la loro esondazione.
Oggi appaiono crollati i perimetri che nel passato contenevano e arginavano le emozioni: l’autorevolezza dei genitori, delle istituzioni, delle regole di appartenenze e biasimo comunitarie. Senza argini le emozioni straripano nelle comunicazioni, nelle reazioni subito accese, nell’impazienza, nel livore, nei timori e nelle ansie. Emozioni che conquistano credito, da rendere credibile ciò che fanno vivere, senza il controllo di un dubbio, di una riflessione indotti da una cultura a cui si appartiene. All’opposto le emozioni, senza contenimento, sono teatro esibito, sono linguaggio sproporzionato, gesti senza misura dei confini. Anche le leadership che si affermano incarnano la manifestazione di emozioni che hanno il sopravvento sulla riflessione e il controllo. Un’esuberanza e una sovrabbondanza emotiva che produce tossicità.
Quando il cuore perde il timone della riflessione e libera senza legami le emozioni, sovente ciò che perde è molto di più di ciò che conquista con questa libertà.