In realtà l’eternità non è poi così stimolante. Ancorché l’appuntamento della vita con la sua conclusione sia dramma e fatica, sembrerebbe che abbiamo bisogno dell’esperienza di ciò che finisce, di ciò che termina. Indispensabile per avere quella di ciò che inizia.
Siamo natura, non meno di cultura. Abbiamo bisogno di avvi e conclusioni, di primavere che innescano la vita e di inverni che la sospendono.
Abbiamo bisogno dell’anno che arriva alla fine, di vivere questa conclusione, sovente stremati, come se fosse un po’ definitiva. Si pensi al clima di fine anno nelle aziende e la fibrillazione che produce, come se gli ultimi giorni di dicembre fossero al di qua di una barriera che li separa definitivamente dai primi giorni di gennaio.
Ma poi abbiamo l’euforia del nuovo anno che s’intavola e sembra che l’anno precedente non sia stato solo poche ore e giorni prima, ma si sia invece inabissato nel passato, per lasciare posto alla nascita, epifania di speranze e di rifioritura.
L’eternità è indesiderabile, perché il desiderio ha bisogno di morti e rinascite, della discontinuità della fine. Indispensabile per ottenere l’entusiasmo dell’inizio. Il desiderio, la pulsazione vibrante dell’esistenza non vive di linearità che rende tutto indistinto, di uniformità dell’eternità. Al desiderio occorre speranza e alla speranza occorrono conclusioni e avvii.
Perché la vita si mostra e si fa comprendere quando ne vediamo il ciclo di nascita, morte e rinascita. Abbiamo bisogno di resurrezioni, perché sono slancio che ci nutre di energia e sogno. Per questo abbiamo anche bisogno di vivere le cessazioni.
Non girano solo le stagioni, ma con esse anche i giorni del nostro anno, che riparte ogni volta rigenerando i sorrisi.