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GianMaria Zapelli elsewhere

Un contributo psicologico
per una vita consapevole,
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Quel che si immagina di essere e di poter diventare

Quel che si immagina di essere e di poter diventare

Quando viviamo condizioni che vorremmo diverse, esperienze che si protraggono con fatica, se non addirittura con dolore, molto di quel riusciremo nello sforzo di superarle dipende da come ci immaginiamo,oltre questi stati di malessere. L’idea che coltiviamo di quel che ci renderebbe più felici o soddisfatt*, se valicassimo il presente che ci sta affliggendo.

“Sarei più felice se trovassi un partner più accogliente” “Starei meglio se avessi un lavoro più gratificante” “Avrei più autostima se non fallissi sempre”.

Estrarre dal presente insoddisfacente l’immagine di un futuro che potrebbe sanarci, consegnandoci maggiore benessere, non è affatto un’operazione semplice. Perché il malessere che si vive è una pianta che ha disteso le sue radici in profondità, persino nel futuro. Per questo, parte fondamentale nel prendersi cura di un malessere è come viene declinata la sua trasformazione immaginaria, perché ogni malessere ha già in sé il suo possibile di essere altro, di mutare in altro. Oppure di paralizzarsi e sclerotizzarsi, se il futuro immaginato non appartiene potenzialmente già al proprio presente.

Così si può immaginare che la trasfigurazione di un insoddisfacente legame amoroso possa essere la ricerca di un nuovo partner, oppure, il mutamento delle proprie incapacità nel saper vivere un’esperienza d’amore, o ancora, lo sviluppo di solide capacità che aiutino il cambiamento del partner. Prefigurazioni molto differenti di un futuro che risolverebbe la propria insoddisfazione, che alimentano aspettative diverse, e anche la dotazione che hanno le aspettative, di poter deludere.

Il pensiero del “se” – se avessi, se fossi, se potessi – può essere una potente risorsa generativa, quanto un frustrante martoriamento. Sicché, mettere a fuoco le coordinate di dell’aspirazione a una vita a maggiore gradiente di benessere non solo determina se potremo coronare un traguardo, oppure paralizzarci nello scoraggiamento, ma ancora di più, dove saranno dirette e impegnate le nostre energie per ottenere un futuro differente.

Dedicarsi al “se”, protettasi in un futuro possibile, immaginando condizioni che lo rendano ancor più appagato, è una pratica indispensabile se viene affrontata partendo dal presente, da ciò che nel presente ci appartiene e ci riguarda. Il pensiero del “se” ci spinge a spostarci sui nostri confini, sollecita i nostri desideri verso esperienze che possono inaugurare nuovi mondi. Ma è una pratica delicata, ad elevato rischio di effetti collaterali, perché funziona se il pensiero del possibile, del “se”, prende le mosse da quel che si è, da un’analisi coraggiosa e lucida delle prigioni in cui ci si trova, cercando in esse le ragioni che le hanno costruite e le stanno reiterando.

Insomma, da una prigione si può evadere se ne conosci a fondo le sue vie di fuga. Vi sono prigioni da cui si può evadere solo comprendendo quanto e come ne siano stati i solerti costruttori. Ovvero, troveremo un futuro differente comprendendo quel che ci fa essere autori del presente, pur faticoso che sia.

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