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Quando negare è necessario e quando danneggia

Quando negare è necessario e quando danneggia

Negare è uno dei più ricorrenti e inconsci meccanismi di difesa psicologica. Freud ne ha ben focalizzato la funzione e Anna Freud lo ha indagato a fondo.

Quando si entra in relazione con un evento doloroso, o anche solo potenzialmente doloroso, la mente ricorre alla sua negazione, per difenderci dalla sofferenza che produrrebbe. Il fallimento, la sconfitta, l’abbandono, la perdita sono esperienze che lacerano, che producono mutamenti pensosi. Negandone la realtà se ne sta alleviando l’impatto, la fatica psichica di farle proprie.

Sicché, vi è una funzione benefica nella negazione, nel lavoro dell’inconscio che produce il rifiuto ad accettare l’ineludibilità dei contenuti laceranti. Perché in questa sospensione della realtà, in questa rimozione della realtà, ci si sta preparando gradualmente a farla propria, ad avere il tempo di sviluppare le necessarie risorse di elaborazione: la conclusione di una relazione, la morte di un sogno, una dipendenza disabilitante. Si nega e nel frattempo ci si dispone a imparare ad accettare il lutto, la sconfitta, la perdita. Il dolore ha bisogno di tempo per essere assimilato, per evitare che sia un trauma insostenibile. Si nega la realtà, ma un motore sotterraneo si è messo in moto. La ristrutturazione di sé, richiesta dall’evento doloroso, rimane in retrovia, sin tanto si creino le condizioni psicologiche per accettare e accogliere nella propria identità, nella propria vita, l’evento penoso.

La serenità psichica si complica quando la negazione diventa ripetizione, quando rimane segretata nell’inconscio la realtà che si è vissuta, senza mai affiorare in tutta la sua evidenza nella coscienza. In questi casi, la negazione cessa i suoi benefici, per trasformarsi in una lacuna identitaria, in una ferita che agisce senza essere mai stata curata e accudita. Come quando si assumono dosi eccessive di un farmaco, da benefico diventa tossico.

Qui alcuni modi attraverso i quali agisce la negazione:

  • nel negare la propria responsabilità, identificando fuori di sé cause o ragioni di ciò che si vive;
  • nel negare i fatti, rifiutandosi di parlarne, cercando spiegazioni alternative, piuttosto che riconoscersene l’evidente realtà;
  • nel minimizzarne gli effetti, reprimendo le emozioni che si potrebbero provare, rinchiudendosi in involucro di apparente forza emotiva, per il timore di non saperle poi gestire se venissero liberate;
  • nel rimandare la decisione, o cercando di non pensarci, nascondendosene le conseguenze paralizzanti.

Modi che se rimangono permanentemente affidati alla regia inconscia, producono limitazioni e privazioni nella propria capacità di iniziativa e di felicità. Invece che essere una fase transitoria necessaria, se ne rimane soggiogati, incapaci di impossessarsi dell’esperienza dolorosa e di trasformarla in un’eredità governabile, non solo inconsciamente allarmante e atrofizzante.

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