La paura, incessantemente e per lo più inconsapevolmente, è uno dei macchinisti della nostra esistenza, insieme al desiderio: thanatos ed eros.
Allo scopo di evitarci dolore, la paura è il nostro custode, ci avverte, spesso ci precede, ci suggerisce strade e scelte, sovente a nostra insaputa. Senonché si insediano in noi paure che eccedono nella cautela, nel trattenerci in un recinto di sicurezza che ci preclude una vita possibile. E ben sappiano quanto le nostre paure siano credibili, tenaci e determinate nel convincerci delle loro ragioni, paralizzandoci nelle abitudini.
Semmai volessimo impossessarci di una libertà dalle nostre paure, una via spesso efficace è cercare di risalire alle loro origini. Perché, quando ne raggiungiamo la loro genesi ne possiamo mutare destinazione e futuro. Avviene uno sradicamento psicologico.
Trovare le origini delle nostre paure è un risultato preciso, chirurgico. Lo si raggiunge attraverso il linguaggio, la puntuale e viva narrazione degli accadimenti che ci hanno consegnato le nostre eredità emotive. Le origini si conquistano, non basta intuirle, occorre loro la precisione della parola, articolata e pronunciata, perché sprigionino una libertà. Riuscire ad avere parole e voce capaci di narrare l’impronta delle nostre paure è un evento generativo. Parlando di noi stessi partoriamo noi stessi. Otteniamo una forma per le nostre paure, le estraiamo dal loro mondo indistinto e oscuro, privandolo del suo potere di minaccia e controllo.
Ma come sappiamo è impegnativo denudare le origini delle nostre paure. Perché ciò che vorrebbe rimanere celato e agire camuffato si oppone alla consapevolezza, alla parola, si maschera con astuzia, per poter applicare l’automatizza e indipendente funzione protettiva delle paure.
Ma possiamo provarci. Magari all’inizio balbettando i ricordi con parole nuove, recuperando attese dolorose, cercando abbandoni che ci hanno segnato più di quanto credevamo, speranze deluse, carezze mancate e baci traditi. Possiamo impegnarci nel cercare una narrazione con parole meno approssimative, più esatte nel ricostruire e raccontarci.
Può essere faticoso, perché ci occorre essere esigenti, non accontentarci di narrazioni approssimative. Dobbiamo pretendere dalle nostre parole di arrivare alle ferite e alle cicatrici, per impararne la genesi e poter dire chi siamo diventati senza saperlo mentre accadeva.
Ma quando troviamo le parole e le abbiamo nella nostra voce, quando abbiamo dato storia e origine alle nostre paure, e ne ascoltiamo la precisione, non troviamo un cielo cupo, ma quasi certamente uno squarcio di luce e uno sguardo un po’ nuovo. Liberato.