L’esistenza umana è stata costantemente scandita da riti, prima ancora che sorgessero divinità e religioni. Già nell’esperienza tribale la vita era costellata da episodi rituali: la transizione verso l’età adulta, la maternità, la morte, il passaggio delle stagioni e molti altri connessi con la salute e la vita. Alcuni sono rimasti quasi inalterati nel tempo, come il pino sempreverde nel passaggio dell’anno, simbolo magico e pre-cristiano accanto al presepe, che auspicava primavera ed estate benevole.
Altri riti e altre cerimonie sono invece l’espressione di quel che il tempo sente necessario ritualizzare e celebrare. Così, anche oggi ne abbiamo moltissimi, religiosi ma anche molti laici, più o meno consistenti, come la festa della laurea, il compleanno, l’anniversario, l’8 marzo, il cenone di capodanno.
Cosa ritorna e appartiene a un’abitudine rituale? Perché è bello, necessario, commuovente, intenso o doveroso celebrare una ricorrenza? Quale bisogno del tutto umano ci rende artefici di riti? Anche di quelli riservati, domestici e privati.
La riproduzione del rito, la sua ripetizione, rifare qualcosa immutato nel tempo, applicando una regola, una legge o un’abitudine che si protrae, consente un benefico ristoro psicologico: il sentimento dell’eternità, dell’incorruttibilità dal tempo e, in ultima istanza, una sottrazione alla morte.
Nel rito ciò che ritorna è lo stesso, il medesimo indenne, riprodotto attraverso modi che ne celebrano la ripetizione: gesti, regali, canti, abiti, pratiche che servono al rito per scandire la reiterazione, per ritrovare immutato il tempo, per ciò che ha valore e desideriamo abbia valore.
Nel fiume che scorre della vita, mai uguale a sé stesso, i riti sono pietre piantate nel greto, che si sottraggono al deterioramento, alla perdita, alla finitudine dell’esistenza. Nel lutto che si celebra in modi simili a quelli che accomunano, nel matrimonio che promette eternità, nella messa che ogni settimana ripete il medesimo, si sperimenta la necessaria e rassicurante immutabilità, l’allontanamento dall’alea, dall’ignoto. Nel tempo e nei gesti del rito ci si connette con il sempre, con l’immobile del perpetuo.
Così ci occorrono i riti, e la celebrazione che ne facciamo, interrompendo il fluire inarrestabile, il costante abbandono del presente nel passo, per consentirci il tempo di sempre, quello di non essere tempo, ma per un poco immortali.
Iscriviti alla Newsletter settimanale di ELSEWHERE, clicca qui