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GianMaria Zapelli elsewhere

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Quando ci si sente rifiutati

Quando ci si sente rifiutati

Sentirsi rifiutati non è un’emozione tra le tante, il suo dolore attiva gli stessi circuiti neurali coinvolti dal dolore fisico. È lacerazione della pelle.

Da chiedersi allora quale sia il precipizio del sentirsi rifiutati, da provocare una reazione tanto dolorosa da corrispondere a un patimento fisico.

La natura biologica della nostra mente, prima ancora che consenziente intenzione, declina la solitudine come esperienza minacciosa. L’abbandono, il distacco, l’isolamento sono pericolo. Già dalle prime ore di vita ci s’addestra alla separazione come dolore. Perché nascere è iniziare la solitudine. La propria sopravvivenza dipende dall’essere insieme, dal legame con la madre. Ma si realizza che non è un legame illimitatamente disponibile, non è attenzione e soccorso certi. Si comprende che essere sfamati e abbracciati sono nel giogo dell’attesa. E nell’attesa si scopre l’impotenza, si impara la fragilità di essere invisibili, separati, l’impossibilità a sopravvivere senza il soccorso di un altro. Così si assimila che essere distaccati è rischio. Lo si impara sin nella pelle, con lacrime e dolore.

Un apprendimento che rimarrà tutta la vita, come angoscia della solitudine e della sua versione relazionale, il rifiuto, che con la sua incarnazione neuronale nel dolore ci ammaestra alla cautela e al timore di venire respinti. 

Ed è timore per lo più benefico, perché indirizza modi di essere, scelte, parole, per non incorrere nel distacco, nell’antipatia, nell’avversione degli altri, lasciandoci soli e isolati.

Ma, per quanto possiamo cercare di prevenirle, ci possono accadere esperienze nelle quali ci investe il dolore del rifiuto. E quando un dolore è in circolo vi è in corso un processo che cerca una riparazione, un’aggiustatura. Così, l’elaborazione psicologica può prendere due direzioni. Quella di riversare su di sé un sentimento di biasimo, di colpa. Ci si sente carenti e inadeguati per meritarci attenzione, amore, accoglienza. E in questo modo si compensa il rifiuto con un sentimento di protagonismo, di potere. Nella condanna di sé si sta anche affermando la propria centralità, di esserne noi la fonte, gli autori. Il dolore ci difende da un dolore peggiore: di sentirci impotenti e vittime del rifiuto subito.

Oppure, all’opposto, il dolore riversa sull’altro un sentimento aggressivo, ritendendolo responsabile di mancanze o incapacità, nel metterci a disposizione un’accoglienza che avremmo meritato. Un’altra forma di riparazione, che accomuna al dolore un sentimento di innocenza, di estraneità nelle cause del rifiuto subito. Ancora una volta il dolore elabora una difesa da un dolore peggiore: di doversi riconoscere privi di qualità e capacità per ottenere ascolto, accettazione o amore.Quel che cambia, nella relazione con la solitudine e il suo tormentato prodotto, il sentimento di rifiuto, è l’entità del pericolo che avvertiamo verso la solitudine e il rifiuto. Una grandezza che potrebbe imporsi oltremisura, privandoci della libertà e della bellezza di essere anche soli. 

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