Il sentimento dell’inadeguatezza ci attende dietro l’angolo, sovente improvviso, inatteso. Diciamo qualcosa, facciamo qualcosa, oppure indossiamo qualcosa, ogni volta qualcosa di troppo o troppo poco, stonato, inappropriato. Tra ciò che vorremmo essere e ciò che ci accade incespichiamo nella nostra carenza. Non è questione di chi siamo, in sé, presi per quel che siamo.
L’inadeguatezza è l’esito di chi ci sentiamo rispetto ad altri, rispetto a ciò che vorremmo essere nello sguardo e nel giudizio di altri. L’inadeguatezza ci affligge come un allarme, di perdere o danneggiare il legame con gli altri di cui abbiamo bisogno, a cui aspiriamo.
L’emozione dell’inadeguatezza amalgama le nostre esperienze personali, le nostre ferite, ma anche i nostri sogni, con i pesi valutativi, di apprezzamento o biasimo, della cultura in cui siamo immersi. E’ una combinazione di personale e di oggettivo, di declinazioni soggettive del cuore e di fatti. Lo stesso gesto che sfugge scomposto, le stesse parole mal comunicate, la stessa macchia di sugo che si imbatte con la propria camicia hanno esiti differenti nei sentimenti di inadeguatezza che si vivono.
Per questo possiamo interrogare le occasioni nelle quali ci assale questo sentimento disagevole, come carte che ci svelano il nostro equilibrio tra essere indipendenti dal giudizio degli altri e il bisogno di essere amati e accolti. Poiché il manifestarsi dell’inadeguatezza è un richiamo ad essere nei ranghi, un modo attraverso cui la nostra mente ci ricorda il rischio di danneggiare la stima, la reputazione o l’amore degli altri per noi. Nelle circostanze in cui ci sentiamo inadeguati siamo perciò in contatto con una nostra soglia psicologica, dove viene meno l’accettarci incondizionatamente, ma si afferma più forte, attraverso il malessere di sentirci inadeguati, la priorità di proteggere il nostro legame con gli altri.
Così l’inadeguatezza è un regolatore, che stabilisce con i suoi scomodi allarmi dove si trova la nostra indipendenza dagli altri e quanto invece temiamo la solitudine e ci sia necessaria l’appartenenza. Un regolatore che indirizza e condiziona serenità e gioia, ma anche sfide e ambizioni. Da chi potrebbe penare per una cravatta sbagliata, a chi per qualche chilo di troppo. Da chi si affligge di essere arrivato secondo, a chi è invece felice di non essere ultimo. E vi è anche chi, come nello scritto di Camilleri che segue, ha avuto altre soglie come misura della propria inadeguatezza.
Andrea Camilleri scriveva poco prima di lasciarci, quindi con una lunga carriera di pubblicazioni di successo: “Poco tempo fa mentre stavo lavorando su uno dei miei romanzi mi fece venire in mente Delitto e castigo. Così chiesi di rileggermi la pagina dove Dostoevskij descrive Raskòl’nikov quando sale le scale per andare ad ammazzare l’usuraia. E ad ascoltare quella pagina di una tale bellezza, di una tale bravura, di una tale felicità di scrittura, io mi sono avvilito perché ho avvertito il senso del mio fallimento, di sentirmi di merda di fronte a una pagina di Dostoevskij.”
Ognuno ha il suo mondo di inadeguatezze, che è anche il mondo che rivela il sogno che desidera realizzare di sé, insieme e con gli altri, ma anche lontano e indipendentemente dagli altri.