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GianMaria Zapelli elsewhere

Un contributo psicologico
per una vita consapevole,
gentile ed etica.

Non temere la tristezza

Non temere la tristezza

Siamo in un tempo dove potrebbe essere facile venir colti da tristezza. Forse è un tempo che ha diritto alla tristezza.

Se comunichiamo a una persona di essere tristi, solitamente ne otteniamo una partecipazione dispiaciuta e addolorata. Come fossimo toccati da uno stato nocivo, un’occupazione a cui porre prima possibile rimedio.
Quando le misure del successo, dell’efficacia e del merito sono la sicurezza, il sentimento audace del futuro, l’affermatività dell’io, la tristezza risulta inopportuna, un disagio che rivela una fragilità indesiderata.

Certo una tristezza prolungata sarebbe da evitare, perché il suo destino è la depressione. Ma vi è una tristezza benevola, calda e persino necessaria. Perché solitamente coincide con una variazione, con un crepa che si apre nel nostro vivere, a rivelarci una differenza tra quel che vorremmo e quel che viviamo, tra il desiderio e l’accaderci. La tristezza non solo porta un sentimento dolente della nostra vulnerabilità e dei vuoti in ci troviamo, porta anche pensiero, cura e calore per sé. Ci conduce nelle nostre crepe per impararle meno pericolose. Non esaltando la nostra sicurezza, proponendoci la spavalderia della nostra forza, ma all’opposto redendoci capaci e vicini alla nostra fragilità. Così la tristezza ci induce ad abbassare i torni della nostra voce, ci rimpicciolisce, ci rannicchia e rintana sotto le coperte, a volte ci bagna le guance.

E’ uno stato diverso dal dolore. Perché il dolore è lacerazione, ferita, squarcio che toglie il respiro e annega la vita. Mentre la tristezza ha tempi più calmi, si distende sulle cose e ci rende umili, ci consegna al sentimento dolente ma anche veritiero della nostra insufficienza.
La tristezza ci porta ad incontrare quel che di noi ha bisogno di cura, memorie, sogni, attese, per accompagnarlo con la nostra gracilità.

E’ una condizione che ci porta lantano dalla narcisistica sicurezza di avere la vita in pugno, ma vicini all’umana possibilità di avere significati e senso nelle piccole cose e nel sentire più accurato.
Quando poi intorno a noi il mondo è provato da un timore pandemico, dal protrarsi delle distanze, delle cautele e dei freni, è facile che il sentimento sicuro del proprio io venga meno, e si debba convivere con un sentimento della tristezza.

Ma forse potrebbe non essere solo un disagio da rimuovere, ma l’opportunità di conciliarci con la nostra fragilità, con la bellezza di emozioni pacate, dolenti certo, ma anche dolci, come è dolce il lieve muoversi delle onde.

“Come stai?” “Beh, sono triste, ma è un bene.”  

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