Le abitudini possiedono una caratteristica peculiare: la comodità. Le abitudini sono modelli di comportamento e di pensiero che applichiamo ricorrentemente senza la necessità di sorvegliare noi stessi, lasciando sullo sfondo la fatica della coscienza e della consapevolezza. La comodità delle abitudini è la spontaneità automatizzata, poiché il nostro comportamento è stato appaltato totalmente agli automatismi che si sono impiantati nelle nostre reti sinaptiche.
Moltissime delle abitudini che si stabilizzano in noi sono l’esito di un cambiamento avvenuto impercettibilmente, come la progressione di una singola e minuscola goccia che incide pietra. La ripetizione di stati d’animo e di emozioni, la ripetizione di gesti e modi di aire, la ripetizione di scelte o esperienze, produce un silenzioso e penetrante mutamento biologico nelle reti sinaptiche, predisposte a creare strutture che rendano spontaneo e quindi comodo ciò che si è già ripetuto.
Un’abitudine che silenziosamente e profondamente potrebbe essersi plasmata in noi, e non necessariamente in modo benefico, è l’abitudine all’assenza dell’altro.
Il distanziamento di paure e ansie prolungate, la pervasiva tecnologia digitale, la saturazione del tempo con scadenze e compiti, ci hanno progressivamente allontanato dalla prossimità e dalla vicinanza fisica con gli altri. Potremmo trascorrere intere giornate, pur operative su tutti i fronti, limitando la nostra vicinanza alle sole persone che preferiamo. L’altro non è più la molteplicità fisica di donne e uomini a cui era inevitabile essere vicini, nel quartiere, nei corridoi delle aziende, nelle code per fare acquisti o per pagare una bolletta. L’altro si è dematerializzato. Tanto da diventare una presenza personalizzabile. L’altro ha cessato di essere Altro, un’esistenza irriducibilmente resistente al tentativo di ridurla a sé stessi. L’altro che sta fuori dal perimetro dei propri affetti strutturati da legami è diventato un soggetto adattabile ai propri linguaggi, ai propri gusti, ai propri bisogni: emotivi, pragmatici, sociali. Dematerializzato nei social con la loro offerta personalizzabile di appagamento relazionale; nelle video call con sfondi che confermano l’irrilevanza del reale. La sua dematerializzazione permette di sottrarsi allo sforzo di inclusione, di ciò che le persone sono nella loro incontrollabile e sovente faticosa diversità da noi.
Uno dei servizi più ricorrenti, offerti in questa epoca, è la possibilità di isolarsi. Potersi isolare è diventato un valore aggiunto. Sopra la camicia e sotto il pigiama. Poter ottenere ciò che si desidera senza dover affrontare relazioni interpersonali, evitando uno scambio che costringa a una comunicazione diretta con qualcuno. Non si tratta di autonomia, che richiederebbe la possibilità di stabilire anche le regole, ma di isolamento, di distanziamento dall’obbligo di chiedere e attendere, di ascoltare, di mettessi in fila. Diventa distintivo eliminare la mediazione di qualcuno tra noi e ciò che ci occorre. Le voci sintetiche che guidano nell’usufruire un servizio, le interfacce digitali che consentono valutazione e scelta sopprimendo l’altro a cui rivolgersi.
Ci siamo abituati alla riduzione della fatica inevitabile che richiede la vicinanza. Ci siamo abituati a non dover avere lo sforzo che richiede la prossimità dei corpi, delle voci, dell’odore, dello sguardo; lo sforzo di dover modulare i propri modi di agire e trovare energie per tollerare, per pazientare, per farsi capire.
Senonché, se è nata un’abitudine che ha dematerializzato l’altro e accresciuto la comodità dell’isolamento relazionale, quel che potrebbe accadere è che la mente farà di tutto per difendere questa comodità, questi modi di agire ormai spontanei e automatizzati. Indifferente se siano benefici o meno. Così quando cercassimo di deviare dalla nostra abitudine ci potrebbe indurre a percepire faticoso uscire la sera per una cena con gli amici, chiamare chi conosciamo solo per il piacere di una piccola conversazione amichevole, apprezzare senza impazienza chi ci parla, ascoltare chi ha idee molto diverse dalle nostre, incuriosirci di chi è differente, straniero. Perché la nostra mente, famelica di abitudini, fa di tutto per difenderle, scoraggiandoci quando cerchiamo di abbandonarle.