Non c’è pace nel sottosuolo. Possiamo nascondercelo, magari senza accorgercene, possiamo ignorarlo e concentrarci sul pieno di impegni e scadenze che ci colmano. A volte non ci riusciamo proprio, perché il dolore è talmente lacerante da saturarci tutti i pensieri. Ma sovente custodiamo un dolore mimetizzato, che non prende il sopravvento sul nostro sentire. Perché non è dolore di perdite e lutti, di un corpo ferito o danneggiato.
La cognizione del dolore non riguarda solo le esperienze strazianti, che paralizzano. È una condizione esistenziale, di essere per natura irriducibilmente esposti alla possibilità del dolore. Al suo allarme, al suo grido nella mente, sovente anche inconscio, quando si trova sopraffatta, senza possibilità di dominare quel che vive. Il dolore è il suono che hanno i confini del nostro possibile. La misura della nostra fragilità. La disagevole evidenza della nostra vulnerabilità. Il rumore della nostra finitudine.
Esente da molti anni da esperienze collettive di dolore traumatico, nella recente cultura occidentale è proliferata la psicologia positiva, il self-help che celebra l’ottimismo. Si è accreditata la convinzione che la vita per essere vissuta al meglio debba essere vissuta nel qui e ora, nello stato ipnotico del presente. Uno spazio temporale così ristretto da consentire di tenerne fuori proprio il dolore.
Sino a contraffare la resilienza. Di certo una caratteristica psicologica preziosa e benefica, per conservare un’integrità identitaria nelle difficoltà e nelle esperienze critiche. Ma che ha assunto una versione ideologica, non solo psicologica. La resilienza viene esaltata a modello di un comportamento utile per trasformare il dolore in prestazione, in successo, in benessere. Da qualità psicologica funzionale a una risposta adattiva, si è trasformata in un mantra anestetico, pratica per elaborare l’esperienza traumatica in utilità e aumentare la prestazione e ripristinare l’ottimismo.
Ancorché richieda di essere elaborato, evitando una sottomissione, non è rappresentandolo come un inquinamento esistenziale da depurare che si ottiene di trasformalo. La rimozione non è quasi mai un’evoluzione. L’identità svuotata dalla relazione con il dolore perde un ingrediente necessario per dare coordinate all’esistenza. Assuefatti all’ideologia della positività, dell’ottimismo, della performance, si alimenta un sentimento di invulnerabilità, di chi avrà sempre le possibilità di espellere il dolore.
Ma vi è un rischio: la perdita del coraggio del dolore può lasciare sprovvisti delle risorse invece indispensabili per convivere con la nostra fragilità, con la sua intraducibilità a pensieri positivi e ottimistici, con una sofferenza che non può essere “trattata” come anomalia rispetto alla felicità attesa.
Infatti, la vita, prima o poi, ci costringe ineludibilmente all’appuntamento con la nostra vulnerabilità e con il dolore. Ma diverso è arrivarci avendone il coraggio e la capacità di elaborarlo, come un ingrediente che merita tempo, attenzione, accuratezza e compagnia. Che invece viverlo con l’impotenza di chi lo ha recluso a un ospite da rimuovere il prima possibile, per sostituirlo con il positivo e la felicità.