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GianMaria Zapelli elsewhere

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Andar lenta-mente

Andar lenta-mente

Certo, non si tratta di demonizzare la velocità. Perché essere veloci, anche veloci, è una qualità sovente utile, a volte persino necessaria. Completare dopo, arrivare dopo, accorgersi dopo potrebbe essere troppo tardi.

Ma vi è una differenza, tra essere veloci ed essere frenetici. Si è frenetici quando la velocità non è più al servizio necessario di ciò che si sta facendo, ma si è impadronita dei propri modi di agire e pensare, indipendentemente da quanto possa essere effettivamente utile. Quando la rapidità e la fretta si sono sclerotizzati in dipendenza, in modi di essere nel percepire e ascoltare, nell’arrivare alle conclusioni, nell’affrontare ogni compito. Correre come atteggiamento psicologico, incarnato nella mente. L’abitudine meccanicizzata della mente a fare in fretta. Trasformata in frenesia la velocità diventa strategia psicologica per contrastare l’ansia di poter perdere il controllo. Perché andando velocemente si ammortizza il timore di non arrivare, di non concludere, di essere in balia del caso. Nella velocità frenetica si cerca di sottrarsi all’inquietudine dell’alea rischiosa del tempo che si trova tra l’inizio e il termine di quel che si fa.

Privarsi della lentezza è una perdita di sé stessi. La capacità di lentezza non riguarda il movimento cinetico del corpo, come si trattasse di trattenere l’impulso dei muscoli, del passo, del gesto o della parola. La lentezza non è sinonimo di rallentare. Non è una velocità frenata.

La lentezza richiede un atteggiamento, una disposizione, un’andatura dell’animo, perché richiede audacia, l’ardire della scoperta. La lentezza affonda nel tempo “durante, quello che è dopo l’avvio e precede l’arrivo; un tempo “fra” che sa esistere per sé stesso, senza essere consegnato e finalizzato al termine, alla sua estinzione. Così la lentezza diventa sguardo e moto dell’animo che trattiene previsioni, anticipazioni, trattenendosi invece nell’attenzione e nell’osservare, schiudendo l’esperienza al caso e all’incerto, perché è andando piano che ci si può imbattere nelle sorprese, nell’imprevedibile di esperienze che possono rimescolare scadenze, certezze e orizzonti.

“Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio” (Milano Kundera). Sicché potrebbe essere più corretto parlare di lenta-mente, perché il luogo dove alloggia la lentezza non è il gesto ma la mente. Nella capacità emotiva e cognitiva di non dipendere dal controllo, affrettandosi verso la conclusione. Andar lenta-mente significa accorgersi consapevolmente del tempo che si vive prima di arrivare al termine: di una percezione, di un ascolto, di un giudizio, di un sentimento.

Non meno importante: la lentezza è differenza nella disposizione etica, perché non si arriva agli stessi valori correndo o soppesando e ponderando i pensieri. “Gli uomini sentono più lentamente il bene, che non il male.” (Tito Livio)

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