Nell’oceano di persone ignote che passano davanti ai nostri occhi – vicine nei mezzi di trasporto, sedute ai tavolini accanto al nostro in un bar o poco distanti nella spiaggia – quando accade alla nostra attenzione di attivarsi con maggiore concentrazione e attrazione per qualcuno di sconosciuto entrato nella nostra percezione? Come fossimo catturati da una luce più forte, che si stacca da un fondale più o meno omogeneo. Cosa stanno dicendo, o facendo, come sono le persone sconosciute che ci trattengono in un ascolto più attento, in uno sguardo più meticoloso?
È la bellezza di una donna o di un uomo a frenare il nostro sguardo? Oppure quel che sta dicendo? I vestiti che indossa? I gesti o gli atteggiamenti che mostra? Quali dettagli ci colpiscono, da rendere qualcuno, tra le tante persone che scorrono negli occhi senza lasciare traccia, motivo della nostra attenzione e del nostro apprezzamento?
Tra i motori della nostra psiche, che ci forniscono spinta nella relazione con noi stessi e gli altri, vi è la nostra sensibilità verso ciò che cerchiamo di essere, verso l’ideale dell’io che ci costituisce e ci dà direzione (Freud). Agisce in noi un costante slancio verso un modello d’essere a cui aspiriamo, verso qualità, modi di agire, capacità, risultati e traguardi a cui tendiamo. Per vocazione psicologica siamo sempre mancanti. Ci abita incessantemente, in modo più o meno perentorio, un sentimento di incompletezza, di qualcosa che vorremo di più o meglio essere.
Ciascuno ha forgiato e imparato dalla vita, soprattutto nell’infanzia, i contenuti della sua carenza, la tensione verso un’idea di sé a cui aspira. Può essere un sentimento di affermazione sociale, oppure qualità da rendere facilmente amati e apprezzati, o sicurezza comunicativa nella relazione con gli altri, o anche un’eccellenza nel possedere conoscenze o abilità.
Portiamo irrimediabilmente con noi, più o meno consapevolmente, più o meno tormentata, una frattura, uno iato, tra chi siamo e chi vorremmo essere. Una frattura che reclama attenzione e calamita i nostri sentimenti.
Così quando vicino a noi compare una persona sconosciuta nella quale è presente un aspetto del contenuto identitario a cui aspireremmo, irresistibilmente la intercettiamo. Può essere un’eleganza e una precisione nell’esprimersi che noi non possediamo. Oppure l’audacia di un gesto di cui siamo privi. O ancora un portamento che sappiamo mancarci. Perché di ciò che ci circonda ci tocca quel che ci ricorda chi vorremmo essere e non lo siamo ancora.Potremmo forse allora comprendere qualcosa importante di noi stessi ricostruendo i dettagli, i modi, i gesti che ci colpiscono e ci seducono nelle persone sconosciute. Troveremmo la nascosta grammatica che stiamo usando per scrivere i nostri desideri d’essere. L’idea che nutriamo per noi stessi, aspetti del vuoto dell’io che non riusciamo mai a colmare, che ci insegue e ci precede.