“Non mi sento responsabile d’essere migliore degli altri. Ciò che non sopporto è di provare piacere nel dimostrarlo.” Fabrizio De Andrè
Fa quasi tenerezza la nostra fragilità, il bisogno incerto di essere rassicurati. Verso le nostre carenze, i nostri fallimenti, ciò che sappiamo non essere il meglio di noi, raramente cerchiamo conferme o verifiche. Ce lo teniamo per noi, silenziosamente. Ma di ciò che ci pare ben fatto, del successo raggiunto, dell’episodio che ci ha gratificati, cerchiamo conferme, applausi. Perché in questo caso il silenzio privato della nostra soddisfazione è insufficiente e non ci basta, non ci basta la pacca sulla spalla che potremmo darci da soli, ci occorre uno spettatore.
Fa tenerezza questa vulnerabilità, di non bastare a sé stessi quando ci pare di essere stati bravi, quando abbiamo realizzato qualcosa di ben fatto. Perché ci occorre la conferma, la rassicurazione che sia proprio vero, che ci appartenga quella grandezza, quella bravura, quell’affetto che abbiamo ricevuto e ci ha gratificati.
Siamo tenaci, irremovibili, testardi nel tenerci la nostra indipendenza e la nostra autonomia dagli altri, ma quando si tratta di rassicurarci delle nostre qualità, di vivere un sentimento di gratificazione che ci consolidi, cerchiamo negli altri garanzie, riconoscimento. Perché, in fondo, non è possibile dire io, affermare la nostra identità e la nostra unicità senza qualcuno che la possa certificare. Che l’io non è singolarità possibile senza la pluralità di un tu che lo raccoglie e lo vede.
Allora diventa modo di essere il modo di aver bisogno di conferme, di dimostrazioni del proprio valore. Tra le due estremità estreme ed esagerate, di non aver mai il desiderio di un apprezzamento o di vivere solo per sentirsi apprezzati, ciascuno si ricava i propri modi di placare il bisogno di sentirsi una bella persona.