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GianMaria Zapelli elsewhere

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Includere non è un’emozione

Includere non è un’emozione

Psicologicamente l’inclusione è tortuosa, non solo culturalmente. Perché non riguarda solo il troppo facile e spontaneo sentire emotivo, la simpatia che include e l’antipatia che esclude.

Spontaneamente e necessariamente il nostro cuore ha un bisogno inclusivo. Ci è necessario sentirci legati, ci è necessario psicologicamente vivere amore, appartenenza e vicinanza. Senonché i legami che cerca il cuore sono quelli regolati e vigilati dalle emozioni, sono guidati dalla reazione spontanea e ineludibile delle emozioni ad avere coinvolgimento o distanza, interesse o indifferenza, simpatia o antipatia. Vi è una capacità di impegno inclusivo che dunque si avvale del bisogno affettivo di vicinanza e legame.

Includere, oltre il perimetro delle emozioni, riguarda il desiderio e l’impegno. Riguarda il desiderio e lo sforzo di considerare gli altri nelle nostre scelte, nelle nostre azioni e nei nostri traguardi. Includere non è il facile gesto di accoglienza affettiva, che abbiamo senza fatica perché guidato dallo slancio emotivo. Includere impegna la fatica psicologica di scegliere chi riteniamo necessario riconoscere come parte della nostra vita e del nostro impegno umano ed etico. E’ fatica psicologica di una scelta, verso chi essere inclusivi, a cui si possono opporre pigrizie, opportunismi, timori, ostacoli.

Così possiamo considerare il mondo che includiamo come un cerchio attorno a noi, un confine che separa chi vi è dentro e chi vi è fuori. Dentro vi sono ovviamente le persone che amiamo, quasi sempre anche gli amici, a volte anche i colleghi di lavoro, ma forse non tutti; vi sono i cittadini della comunità a cui sentiamo di appartenere, ma forse non tutti; persino gli abitanti del nostro paese, ma forse non tutti; e così gli europei, ma non forse non tutti. E così via, con diametri del nostro cerchio inclusivo che possono essere anche molto diversi, per quantità e diversità di donne e uomini verso cui sentiamo il dovere e il vincolo di un riconoscimento e di un nostro impegno.

Ma cosa succede a una comunità, persino a una civiltà, quando l’unica forza che regola l’inclusione e l’esclusione è l’energia emotiva che si ha a disposizione? Cosa succede al futuro quando l’Altro per cui si è disponibili a uno sforzo di adattamento e accoglienza è solo chi sa rassicurare, gratificare o appagare le nostre emozioni?

Sempre più in questo tempo cresce il tasso di coinvolgimento emotivo, affrancato da ogni distanza, da ogni cautela. Ne accettiamo la tirannia, declinando l’Altro attraverso l’emozione che ci procura. Ci pesa e pare insostenibile lo sforzo necessario per trovare un impegno, una relazione con l’Altro che non sia alimentata dall’emozione, dall’euforia, dalla simpatia. Per poterci spingere a una complicità con un’altra persona deve esserci l’eccitazione di un’emozione. Diversamente, l’Altro rimane una distanza che non suscita impegno, perché non si trova l’energia per pensare e vivere una vicinanza. L’inclusione che arriva solo dove arriva la simpatia o l’immedesimazione emotiva, sacrifica ciò che è richiesto per evolvere: la responsabilità.

 

 

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