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GianMaria Zapelli elsewhere

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Il buono dell’infelicità

Il buono dell’infelicità

Lo sappiamo, non siamo fatti per una felicità durata, permanente, interminabile. Non solo perché siamo costretti a infelicità devastanti, penose, che non vorremmo, che subiamo quando la vita ci impone il suo dolore. Ma anche perché non vi è solo l’infelicità che patiamo nostro malgrado, che malediciamo perché è il prodotto di perdite, di sofferenze che non abbiamo scelto, vi è anche un’infelicità di cui si è alleati, complici di una trama esistenziale irresistibile.

Infatti è impossibile tracciare in modo universale l’identikit dell’infelicità. Parafrasando Tolstoj, si potrebbe dire che tutte le persone felici si somigliano, mentre ogni persona infelice è invece infelice a modo suo. Così vi potrebbe essere anche la possibilità che dell’infelicità, di alcune forme di infelicità, ne abbiamo bisogno, se non addirittura il desiderio. A cominciare da Eva, che pur sapendo la vita di fatica che avrebbe scelto, ha preferito abbandonare l’eterna (e stucchevole) felicità del paradiso.

Così pare sospetto il bisogno della felicità a tutti i costi. L’esaltazione della felicità come aspirazione a cui si dovrebbe essere destinati, un’apologia della felicità che assegna all’infelicità a un ruolo difettoso, come fosse una corruzione, una degradazione dell’essenza della vita. Essere infelici, quando non lo si è per strazianti ragioni imposte dalla vita, è socialmente riprovevole, esecrabile, da emendare attraverso un’educazione che riporti nella doverosa e luminosa carreggiata della felicità.

Se incontrando una persona conosciuta alla consueta e consunta formula: “Come va?” rispondesse: “Sono infelice” è facile lo sconcerto, la sorpresa, come se apparisse un fantasma inatteso, ingombrante, lasciando privi di parole per affrontarlo. L’infelicità che appartiene alla nostra vita, persino più radicalmente della felicità, quando viene alla luce produce disagio, costretti ad affrontare ciò che si preferirebbe rimanesse celato, sotterraneo. Meglio dire e sentirsi dire e crederci: “Tutto bene”. Il cuore non si agita, dovendo affrontare la forza perturbatrice dell’infelicità. Perché l’infelicità ha anche questa caratteristica, di turbare, di inquietare, di agitare le acque. Poiché l’infelicità è collegata a una vita che si inceppa, che delude, che amareggia, una vita che non realizza le speranze, che perde di equità, di amore, di accoglienza. L’infelicità è disagevole perché parla e ci parla della vita che ci appartiene, nella quale siamo gettati, del buio che non sappiamo schiarire, degli incubi che diventano realtà. L’infelicità perturba e scompiglia il bisogno di sicurezza, di potersi dimenticare dei problemi, dei fallimenti, della fatica di vivere, a cui corrisponde invece la felicità, che è esattamente lo stato d’animo nel quale ci si dimentica della vita e tutto pare perfetto.

Ma irresistibilmente, e a volte senza cause ragionevoli, si è infelici. A volte si persevera nell’infelicità, senza tentare in alcun modo di uscirne, salvo il lamento che ne è in realtà la celebrazione. E se vi fosse del buono in questo? Se essere infelici a volte fosse un modo di essere, di trovare sé stessi, più significativo ed esistenziale della felicità? Perché nell’essere infelici forse si è più prossimi alla natura più profonda della vita, che non è spensieratezza, ma tormento di domande, di speranze che patiscono, di attese senza risposta. A volte, nell’infelicità vi è anche la vicinanza più autentica con l’umanità fragile e vulnerabile dell’uomo. A volte, nell’infelicità vi è la vita nella sua verità.

 

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