È difficile rimanere indenni dalle ferite. E quelle dei primi anni di vita arrivano facilmente in profondità, perché per lo più inconsapevoli, senza poter essere attutite dai sistemi protettivi che si hanno da adulti. Le ritroviamo, se siamo abili nel cercarle, più tardi. A volte troppo tardi.
Siamo dotati di una sensibilità al dolore molto più penetrante di quanto ci è dato di capire con il pensiero che abbiamo di noi stessi. Siamo oceano nelle cui profondità nuota una vita che non scorgiamo dalla barca su cui siamo, cercando di tenere una rotta.
Ciò che hanno di straordinario le ferite è di diventare cicatrici quasi sempre indelebili, permanenti nelle nostre successive strategie esistenziali. A fatica ci accorgiamo della loro profondità, benché siano la trama invisibile delle direzione che prendendo i nostri sentimenti. Soprattutto nelle nostre relazioni con gli altri.
I possibili che avremmo a disposizione, la vita che potremmo vivere, sono incanalati dall’impronta delle ferite vissute. Non significa necessariamente che la loro guida sia infelice o dannosa, si tratta però di una guida a senso unico, con i paraocchi, che sottrae alternative.
Un esempio. Abbiamo sofferto perché ci siamo sentiti poco accettati e amati dai nostri genitori, magari credendo avessero una preferenza ingiustificata per un nostro fratello o sorella. Se ce ne rimane la cicatrice, ci spingerà verso relazioni e situazioni nelle quali cercheremo incessantemente di dimostrare a noi stessi qualcosa. Ci metteremo alla prova continuamente, cercando evidenze delle nostre qualità e del nostro valore. Per questo, saremo più a nostro agio in relazioni nelle quali potremo affermare il nostro io, sentendo faticoso abdicare da noi stessi e immergerci nell’invisibilità del noi. Così siamo ancorati nel solco della ferita, che ci ha insegnato il dolore di non sentirci accolti. Al punto da privilegiare, inconsapevolmente, esperienze e legami che ci consentiranno di affermare il nostro io. Tenendoci ben lontani da tutto ciò che assomiglia a quanto già dolorosamente vissuto, quando ci siamo sentiti ignorati.
Un paradosso: tanto più cerchiamo di sottrarci al dolore già vissuto, tanto più ne rinnoviamo la sua presenza nella nostra vita. Sottrarci alla possibilità di replicare la ferita già vissuta diventa una celebrazione del suo segno, assegnandole un ruolo dominante nelle nostre inclinazioni e scelte.
Un altro esempio. Abbiamo sofferto una dipendenza affettiva che non è stata ricambiata. Ricavandone la dolorosa convinzione di non essere stati amati perché privi di capacità e qualità in grado di indurre gli altri ad amarci. Vi è la possibilità che questa ferita innesterà un vittimismo onnipotente, che esaspera ed esalata la centralità del proprio impegno nei legami in cui si è coinvolti. L’atteggiamento vittimista, che enfatizza l’attenzione su di sé, nella convinzione di essere il principale artefice delle relazioni che si vivono, si nutre di sfiducia verso gli altri, ottenendo di proteggersi da una nuova esperienza di abbandono. Perché nell’onnipotenza di credersi fondamenta del legame vissuto si evita di affidarsi all’altra persona e al suo impegno verso il legame. Una cicatrice che potrebbe indirizzare verso legami con partner molto autonomi e ben individuati, dai tratti indipendenti. Partner con i quali è facile dare credito alla propria ferita, credendo che la tenuta del legame sia possibile solo grazie al proprio sforzo di dedizione, di sacrificio, di adattamento. Anche in questo caso, ciò che si è dolorosamente imparato da una ferita finisce per riprodursi, creando una visione del mondo adattata alla cicatrice che si porta sulla pelle.