Ben poco sappiamo di ciò che non sappiamo. Non è un gioco di parole, ma una condizione che riguarda il nostro possibile, chi possiamo diventare, arricchendoci ed espandendoci. Famoso il presupposto di Socrate: So di non sapere.
Essere consapevoli non riguarda cosa si sa, ma soprattutto cosa scarseggia al nostro sapere, le voragini che lo circondano, le assenze che mancano all’appello della conoscenza.
E’ facile, al punto da essere persino un bias neurobiologico della mente, privilegiare quel che si conosce, quel che si è percepito, quel che si ricorda, come fossero prova ed evidenza di una conoscenza attendibile. L’ignoto è meno rilevante del già noto.
Ci avvaliamo di misure e criteri, a cui ci ispiriamo per stabilire cosa significhi essere un buon genitore, come si comunica correttamente, come si affrontano le difficoltà, come si cura un raffreddore. Attingiamo alle esperienze e alla loro trasformazione in conoscenze. Ciò che non ci appartiene, che non abbiamo visto, sperimentato, incontrato non entra a far parte delle nostre misure. E facilmente non ce ne accorgiamo.
Un po’ come i figli, quando sono ancora giovani, di genitori pessimi: amano smisuratamente i loro genitori, pur carenti e dannosi. Non sanno ciò che non conoscono, di modi migliori di poter essere amati e accuditi. Non imparano ciò che non possono imparare, così credono che sia tutto lì e solo lì l’unico modo che hanno di avere l’amore di un genitore. E ne porteranno per la vita il segno.
Ma abbiamo un balsamo, un farmaco che ci cura dall’ignoranza, dall’illimitato che ci sfugge e che potrebbe cambiarci la vita, se lo conoscessimo un po’ di più. Cambiarci in conoscenze più accurate, in esperienze che liberano la nostra autenticità, che ci arricchiscono di consapevolezza e nuove scelte. E’ un farmaco, non un rimedio definitivo, perché sarà sempre più vasto ciò che non conosciamo, di quel che potremmo sapere. Questo medicinale, benefico per la nostra saggezza, è fatto di due ingredienti, due principi attivi: il dubbio e l’incessante curiosità.