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GianMaria Zapelli elsewhere

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La stanchezza. Quella che arriva piena di passato e quella vuota di futuro

La stanchezza. Quella che arriva piena di passato e quella vuota di futuro

La stanchezza è uno stato d’animo dalle provenienze differenti.

Prima del tempo pandemico è stato scritto (Byung-Chul Han) che vivevamo in una società della stanchezza. Un tempo nel quale abbiamo abolito le pause, le interruzioni oziose, le sospensioni inefficienti. Sempre e costantemente in azione, in un impegno prestazionale, all’insegna di una possibilità illimitata. Non solo professionale. Connessi permanentemente, incessantemente destinatari di contenuti, messaggi e notifiche. Esposti a un’offerta smisurata di esperienze e stimoli ci siamo abituati a saturare il tempo di azioni, consultazioni, incontri, scadenze. 

Dunque, una stanchezza per la sovrabbondanza, tanto da esaurire l’io, nell’impegno inarrestabile di essere nel tempo a venire, nei termini da rispettare, nel compito da eseguire. Stanchi per eccesso e non per carenza, per il sovrappiù di stimoli, informazioni, contenuti, possibilità.

Poi giunge il tempo pandemico, che rallenta la prestazione, che restringe lo spazio e le possibilità, che limita l’io a fare del presente preoccupazione di sopravvivenza, di incolumità fisica. Un tempo ridotto, contratto nell’attesa, privato dal sentimento di potenza, consentito da agende quotidiane che non avevano percezione di limiti e di limitazioni. 

In questa segregazione nel presente compare una stanchezza differente. Non più quella di una giornata che ha consumato dosi enormi di energie dedicate al fare, all’azione sicura di un mondo a disposizione delle proprie possibilità. Il tempo pandemico costringe a sé stessi, a una vicinanza con sé, non mediata dallo slancio positivo e rassicurato attraverso quel che si fa. È un tempo asfittico, senza spazi e senza tempo, nel quale si vive il rumore di sé stessi, il proprio lamento. È un tempo che affatica in modo diverso, che genera una stanchezza dolente. Non è solo stanchezza di libertà sottratta, ma anche stanchezza dell’essere costretti all’interiorità, al ripiegamento sui propri timori, sulle privazioni, su proprio io, che si trova indebolito e smarrito in una realtà che ha perso la sicurezza della prestazione, del fare che consente di sapersi autori della propria vita.

Non è la stanchezza di energie che si sono esaurite nell’essere protagonisti, ma di energie spese a non essere, a non fare, ma a vigilare. Così il tempo che si avrebbe di non fare nulla, nella reclusione domestica, diventa un ossimoro che consuma e depaupera. Il nulla che non può essere azione, fare, nell’attesa inerte, è un’esperienza che non trova piacere, non diventa la leggerezza dell’ozio o della pigrizia.

Siamo arrivati al tempo pandemico con un io celebrato dall’azione incessante, affermato dalla sicurezza del fare. Poi siamo stati costretti allo spazio angusto dell’ascolto preoccupato, in un tempo troppo uguale a sé stesso. Senza abitudine per l’attesa inerte e per il silenzio inattivo, senza educazione per l’ozio e la pigrizia, abbiamo la fatica di avere noi stessi da ascoltare, trovando diminuito e ridotto l’io, che aveva l’abitudine di credersi molto di più.

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