Lo sguardo è fondamento, origine, libertà o prigione, conoscenza o ignoranza. Lo sguardo ci dona e ci priva.
Orfeo non ha saputo rinunciare al proprio sguardo, condannando Euridice a rimanere negli inferi. L’avrebbe salvata se avesse rispettato l’ordine di non voltarsi a guardare. Ma ebbe bisogno di vedere e si voltò. La vide appena per poco, prima che scomparisse definitivamente.
Siamo il nostro sguardo, prima ancora di saperlo, di pensarlo, di renderlo contenuto. Quel che vediamo ci dirige, è rotta che ci precede, mappa a cui ci affidiamo.
Così pare sensato averne cura, occuparsene, non come fosse “normale”, come fosse di per sé sufficiente e bastante a darci tutto ciò che ci occorre: avere quel che vediamo e non dubitarne. Invece lo sguardo, il suo imperativo e le sue possibilità, sono l’esito di un’educazione, di ciò che ha imparato, dalle esperienze che lo hanno abituato, dalle emozioni che lo hanno forgiato, dalla memoria che lo ha addolcito o indurito.
Due modi di vedere meritano attenzione, a volte persino una rieducazione: quel che vediamo di noi stessi e quel che vendiamo degli altri.
Entrambi gli sguardi sono complicati, di troppo o troppo poco, della distanza giusta da trovare, la prospettiva in cui collocarsi, perché molto dello sguardo dipende da come ci si colloca rispetto a ciò che si vede.
Vedere noi stessi è arduo per la troppa vicinanza, troppo dentro per vedere quel che invece diventiamo fuori. Così sapersi vedere richiedere di sottrarsi a sé stessi, di estrarsi, di spostarsi, indossare occhi diversi, lo sguardo altro da quello troppo complice che abbiamo con noi stessi. E crederlo più vero di quello che vediamo per abitudine. Saper vedere sé stessi dal di fuori è prendersi le misure, sottrarsi per ritrovarsi, allontanarsi per comprendersi.
Non meno delicato e complicato quando volessimo possedere uno sguardo rispettoso dell’Altro, capace di accoglierlo e comprenderlo, ovvero prenderlo come pezzo di noi, “com-“. La si potrebbe chiamare empatia. Anche in questa rotta lo sguardo deve abbandonare sé stessi, deve svuotarsi e dedicarsi all’epifania dell’Altro, rendersi capace di farsi altro, di diventare capace di vedere un’altra intimità del cuore dalle proprietà indipendenti. Vedere gli altri da di dentro è un salto nell’umiltà, nel saper abdicare dall’imperativo del proprio sguardo, per renderlo mansueto e cauto, avanzando discretamente per imparare a guardare, per vedere quel che si vede, sapendolo di altri e per altri.
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