La mente reclama sicurezza, così, percepire la propria debolezza, si sa, non è piacevole. Timori che sono di troppo, conoscenze che mancano, carenze che ci fanno stare un passo indietro, sottraendoci sicurezza. Avvertiamo lo scarto tra ciò che sarebbe meglio e dove siamo, deboli.
Ma non ogni debolezza è della stessa pasta.
Vi sono quelle del corpo, poco adatto a sforzi che ne superano la possibilità. O quelle della malattia, che impone sottrazione e fragilità.
Vi sono anche quelle sciatte e opportuniste, che nascono dall’incuria verso ciò che pur potremmo avere: un po’ più di coraggio. Sono debolezze che cedono al calcolo, alla comodità di non rischiare nulla. Non solo la carne è debole, ma di più lo sono i valori, la sincerità, l’onestà, la coerenza.
Ma ve ne sono altre necessarie, utili e persino benefiche.
Perché percepire una debolezza, una mancanza, è anche un avvertimento. Un richiamo che ci sollecita vigilanza, cautela, domande. Quando sentiamo deboli le nostre conoscenze, non complete e carenti, quando sentiamo deboli le nostre capacità, non sufficientemente preparate e pronte, quando si presenta la debolezza nella nostra coscienze è anche un’occasione virtuosa di consapevolezza, che ci indirizza, nel completare la conoscenze che ci mancano, nell’equipaggiare le capacità che ci occorrono.
Così ci è indispensabile, a volte, un sentimento di debolezza, ancorché sgradito, per renderci migliori, coscienti di poter essere di più. Ci indirizza verso un arricchimento.
All’opposto, se mai fossimo toccati da una percezione della nostre debolezze, se sempre ci accompagnasse la sicurezza di aver compreso completamente, di potercela fare, del futuro che ci attende, sopravvaluteremo con troppa leggerezza noi stessi, privi dell’aiuto di vigilanza, di interrogativo e di esitazione che ci viene quando ci sentiamo deboli.
Certo vi è una differenza, e non è da poco: come reagiamo al presentarsi di un sentimento della nostra debolezza. Perché potremmo non coglierne il benefico aiuto e soccombervi. Considerala una condizione ineludibile, a cui non abbiamo la possibilità di sottrarci: “è il mio modo di essere”.
Ne otterremmo solo la versione amareggiata della debolezza, sterile. Perdendone l’insegnamento e l’indirizzo, la trasformiamo in una prigione. Pur di non imbatterci nel rischio di non realizzare il desiderio che la debolezza potrebbe far sorgere di noi: di cambiare.