È ineludibile: di dover affrontare anche la fatica emotiva di aspettative che non si realizzano, di un mondo sproporzionato che costringe ai propri limiti, alla delusione, all’impossibilità di far sempre coincidere ciò che si vorrebbe con ciò che si ottiene. È il disagio psicologico quando si sbaglia e se ne devono affrontare le conseguenze o quando ci si incaglia nella asimmetria tra ciò che si può essere e quel che si vorrebbe essere o ricevere. Nella persona che si ama non vi sono i modi e le attenzioni che si vorrebbero, con il figlio non si è capaci delle parole che ottengano il suo impegno, nel lavoro non si trovano risultati verso i quali pur ci si sta impegnando. È un fardello di impotenza e frustrazione da dover portare con sé caricato nell’animo.
Sicché, quando il mondo interiore è in sofferenza si mobilitano le strategie inconsce dedicate a cercare di mitigarla, se non addirittura espellerla dalla coscienza. Tra i diversi espedienti adottati inconsapevolmente ve ne sono due che appaiono distanti, ma in realtà molto simili: tormentarsi con un senso di colpa o martirizzarsi con il vittimismo.
Tra senso di colpa e vittimismo è evidente la diversità nell’elaborare l’idea di sé stessi, quando si è costretti a vivere un’esperienza deludente, dolorosa, fallimentare: mentre nel senso di colpa viene operata una svalorizzazione di sé, che penalizza i propri modi di essere nella relazione con una realtà verso cui ci si sente in dovere; nel vittimismo all’opposto viene svalorizzato il mondo, colpevole di negatività, a cui è contrapposta la propria innocente virtù.
Ma vi è molto di simile tra sentirsi in colpa e sentirsi vittime: entrambe sono strategie difensive a cui l’inconscio ricorre per alleviarci la ferita nell’essere impotenti. In entrambe le posture emotive è presente una svalorizzazione del proprio legame con la realtà, perché viene prodotta una scena psicologica che esclude sé dal mondo. Il mondo, quando sfugge alle possibilità di controllo, di poter corrispondere ai propri desideri, cessa di essere integrato e incluso nell’io, se ne sta fuori da sé. E la colpa è la cifra che produce questa separazione di sé dal mondo: la propria colpa o quella del mondo, in entrambe le versioni vi è l’io da una parte e il mondo dall’altra.
Senso di colpa e vittimismo isolano sé stessi dal mondo, gettano nella solitudine. Il dolore affonda sé stessi nell’abisso della solitudine, ripiega in sé, vittima o colpevole. Perché il dolore è insieme ferita e farmaco, pena e rimedio. Quando si fallisce, quando si assiste a una realtà che si dirige altrove da dove vorremmo, il dolore che si produce ci rinchiude in noi stessi, ci circonda di un muro e si fa stanza nella quale siamo solo noi, cessando di sentirci parte del mondo, di averlo dentro, con le sue possibilità e le sue impossibilità, con ciò che ne possiamo e ciò che ci è impossibile, come parte di noi stessi. Nel dolore, che sia quello della colpa o quello del vittimismo, erigiamo noi stessi, il nostro io, a centro della nostra attenzione, lo celebriamo, pur con pena, come centro della nostra vita. Lo proteggiamo isolandolo.