Forse è uno dei sentimenti più strazianti che si conosce ben presto: il dolore di vedere nello sguardo di chi sia ama smisuratamente – della madre o del padre – la delusione.
“Mi hai deluso” scandice una lacerazione, un allontanamento. La delusione è prodotta da un’aspettativa tradita, un meglio che si è rivelato peggio.
Sentirsi autori di una delusione è una ferita penosa, ci fa credere artefici della nostra solitudine. Deludere, privati di un apprezzamento che abbiamo compromesso, ci fa sentire separati. Nel percepire la distanza che si è prodotta dagli altri, la loro disillusione, che ci condanna ad essere meno di quanto ci si attendeva da noi.
Da chiederci perché sia così presente il timore per una delusione che potremmo provocare? La nostra sensibilità nel poter deludere gli altri è il prodotto di due ingredienti: uno biologico e l’altro esistenziale.
Il primo ingrediente. Il sistema nervoso ha come missione biologica la nostra sopravvivenza. Tra i tanti criteri che adotta il cervello nel presidiarla vi è anche di tenerci lontani dall’isolamento e di indirizzarci verso una vita sociale. Il timore di deludere possiede questa funzione basilare, programmata neurologicamente. Sappiamo infatti che vi è una connessione neuronale tra il vissuto che ci rende sensibili al timore di deludere con le aree del cervello dedicate a mantenere un legame sociale con gli altri. Il dolore associato alla delusione che potremmo provocare è un campanello di allarme neuronale, che ci avverte quando rischiamo di perdere o danneggiare la solidità sociale delle nostre relazioni.
Ma non è tutto. Vi è la vita che viviamo. Vi sono le esperienze, che la plasmano e indirizzano la predisposizione neurobiologica, dando peso, intensità e sensibilità al nostro timore di deludere.
Così non è raro avere cautele e allarmi verso la possibilità di deludere più consistenti e preoccupanti di quanto sarebbe utile e benefico. Al punto da trasformarsi in un timore disfunzionale, che soffoca e inibisce espressioni identitarie e di sé, accreditando un pericolo esagerato di abbandono o di rifiuto. Da risorsa si è trasforma in reclusione, una prigione che tiene segretate parole, scelte, idee, persino sogni.
Impariamo le paure da quel che viviamo, modellando una predisposizione biologica. Questa convivenza di natura ed esperienze, di necessità ed eccesso, rende tanto difficile trovare uno stato in cui il timore di deludere ci sia d’aiuto, mentre viene frenato quando eccede nei fornici sproporzionate minacce di quel che potrebbe accaderci.
È faticoso separarsi dalle nostre paure perché ogni paura, per quanto dannosa, ha una componente di necessità ed esperienze che la legittimano. Come separarsi dal salvagente quando non si sa nuotare: anche se tocchi il fondale con i piedi, poco più in là potresti annegare.
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