La sofferenza non ha sempre buone ragioni, a volte assale l’animo senza averne necessità. Ma qualunque siano le ragioni della sofferenza, ragionevoli o meno, appropriate o smisurate, è sempre il prodotto di un cuore ferito.
La sofferenza, più di ogni altro sentire, ha radici che più affondano nell’identità, e per questo è l’espressione di ciò che di più unico, distintivo, irripetibile vi è in una persona. Si è facilmente simili nella gioia, perché è un sentire più facile, meno impegnativo. Nella gioia e nella felicità ci si allontana da sé, si partecipa senza pensieri e senza ripiegamenti, si è immersi nell’allegria spensieratamente. La felicità non dà da pensare.
Invece la sofferenza precipita e isola nella propria esperienza. Il dolore che si vive è il proprio dolore, perché nelle pene vissute si è in comunicazione con il terreno più personale e privato della propria esistenza. Per questo la sofferenza che si patisce non è solo un avvenimento collegato a una specifica causa. Soffrire è un’esperienza radicale, perché è la manifestazione inevitabile e irriducibile di ciò a cui l’esistenza cerca di sottrarsi, ma a cui deve arrendersi: la vulnerabilità e la debolezza.
Perciò, dove vi è una persona che soffre, qualunque ne sia la ragione, giustificata o ingiustificata, vi è sempre una persona che vive l’intimità più impegnativa con la propria identità. E’ dunque da ricordarci quanto scrive Cesare Pavese: “L’offesa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra”.