La relazione conversativa e introspettiva con le proprie emozioni, in particolare quelle faticose e grumose, è un terreno complicato, dove è facile scivolare nell’eccesso, nella disfunzionalità. Come l’eccesso del credito che consentiamo alle nostre emozioni, facendoci megafono senza regolazione del loro movimento.
Sappiamo dalle ricerche neuroscientifiche che la prima e istantanea reazione dell’amigdala (la struttura cerebrale preposta a vigilare sulla nostra sopravvivenza) nei confronti di ciò che ci accade avviene senza esserne contemporaneamente consapevoli. Una reazione asincrona con la nostra coscienza, che però suscita sempre modificazioni fisiche: irrigidirsi, tremare, contrarsi, sottrarsi, ecc.. Accorgendoci di questa nostra reazione corporea la qualifichiamo, le attribuiamo un contenuto emotivo: paura, rabbia, fastidio, ansia. Ed è soprattutto questa assegnazione di un’identità a ciò che proviamo che attiva i sentimenti e lo stato d’animo verso quel che viviamo. In altre parole, non è la reazione che ci contrae davanti a un pericolo a scatenare lo stato d’animo del terrore, ma accorgerci di avere paura. Così quando consideriamo le nostre emozioni e cerchiamo di dar loro forma e motivazioni sovente siamo più rivolti al nostro modo di reagire alla loro presenza nel nostro animo, al loro modo di risuonare in noi e di avere attenzione da parte della nostra mente. Molto meno ai fatti che le hanno prodotte.
Perciò può accadere che il dialogo con le nostre emozioni si instradi in un eccesso di credito e di attenzione al modo con cui sono valutate dalla nostra mente. Al rumore che fa in noi la percezione del timore che proviamo o della sfiducia che ci rende minaccioso il mondo. Così vi è la possibilità che la nostra relazione conversativa con le emozioni che viviamo rimanga ad esse subalterna, passiva, incapace di stabilire una distanza dal suono che produce in noi la percezione di avere paura. Incapaci di considerare questo suono pur così persistente il prodotto di un eccesso di interpretativo, in un loop tautologico: ho paura perché ho paura; o in un altro modo: la paura che provo mi conferma che devo aver paura.
Non meno eccessiva, e poco efficace, è la conversazione che invece banalizza le proprie emozioni, che si accontenta di ridurle a poche e semplici descrizioni, che le restringe in uno spazio magro di interrogativi. Proteggendosi così dal rischio che possano prendere il sopravvento su di sé. In questo caso invece che eccedere in un ascolto delle emozioni troppo compiacente, si eccede togliendo loro ascolto. Le si ibernano lontano dalle parole di cui invece avrebbero bisogno per essere comprese.
Sicché saper parlare delle e alle proprie emozioni è uno dei compiti più impegnativi, nel saper dare alle emozioni il ruolo e la funzione che al meglio possono mettere a disposizione intrepretando quello che viviamo. Senza autorizzarle in ogni colore che ci pare mostrino, ma neppure ignorando tutti i colori che ci possono regalare.