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GianMaria Zapelli elsewhere

Un contributo psicologico
per una vita consapevole,
gentile ed etica.

Per fortuna c’è quel che non vediamo: l’inconscio

Per fortuna c’è quel che non vediamo: l’inconscio

“Il movente esiste, sappiamo che esiste: eppure non riusciamo a vederlo, non possiamo neppure scorgere la sua ombra; è nascosto nell’oscurità più fitta” Ellery Queen

Sappiamo che l’inconscio è popolato da cecità. Una cecità sovente necessaria. Non è un’anomalia, una secreta nella quale ciò che vi si nasconde dovrebbe essere portato necessariamente alla luce. Ciò che non sta nella nostra consapevolezza e si ripara nell’inconscio ha una sua ragione che riguarda la nostra sostenibilità emotiva, o meglio la nostra tolleranza della sofferenza. Possiamo perciò dire che appartiene alla natura umana, costituzionalmente, una conoscenza di sé imperfetta. In altre parole, la nostra natura psicologica è temprata più per proteggerci che per poterci conoscere a fondo.

L’inconscio ci consente di sopportare – che si compone di sub‘sotto’ e portare‘trasportare’ – noi stessi. Ci permette di trasportare noi stessi nella vita, evitando che diventi un affanno eccessivo e intollerabile. La scoperta di se stessi è come una scalata, più si eleva in alto maggiori sono le risorse che dobbiamo avere a disposizione per tollerare la mancanza di ossigeno.

La cecità a cui ci consegna l’inconscio ci protegge dall’incontrare la scoperta della nostra indicibilità. Ci protegge dallo smascherare l’esistenza di una differenza tra chi pensiamo e ci diciamo di essere, tra ciò che crediamo di aver fatto, di aver deciso e gli effettivi atti, gesti e incontri delle nostra esistenza. Poiché il doverceli dire per come sono realmente sarebbe eccessivamente penoso. Così l’inconscio ci soccorre, liberandoci dalla fatica di scoprire che il capo non ci ha premiati perché effettivamente abbiamo meno capacità di altri; che il nostro collega non collabora con noi perché siamo meno generosi e disponibili di quanto crediamo; che la persona che amiamo ci ha lasciati perché siamo più noiosi, più aridi, più poveri di quanto ci diciamo.

L’inconscio è dunque un pregevolissimo meccanismo di protezione, che ci consente di poter dire, credendoci con convinzione: “E’ colpa sua”, “Sono costretto a mettere una maschera, altrimenti io sarei differente”, “Sei tu che non sei capace di farti ascoltare”, “Per forza mi sono comportato così, perché lei…”, “Ti sbagli, non ho affatto detto che…”, “Se non ho potuto dire la mia è perché voi me l’avete impedito”.

Serve allora la scoperta dell’inconscio? E’ utile affrontare lo sforzo della propria intimità che ci espone alla fragilità?

Ciò che produce l’occultamento nell’inconscio ha ragioni che non sono quelle della nostra felicità. Il bisogno di non soffrire non è la stessa cosa che il desiderio di essere felici. Accade che il perseguimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro. Nella ragione che guida il nostro bisogno di difenderci si sacrificano a volte altre ragioni possibili, quella del buon senso, della felicità, dell’efficacia delle nostre scelte o dei nostri comportamenti.

Se non sistematicamente e assiduamente, vi sono delle occasioni nelle quali potrebbero essere benefico, ancorchè faticoso, incontrare il nostro inconscio: quando ci accorgiamo che i nostri sogni, i nostri valori, le persone che amiamo hanno bisogno di qualcosa di più di quel che ci diamo di essere. Quando intercettiamo che in quel che viviamo vi sono oscurità che potrebbero liberare nuove possibilità. Quando comprendiamo di avere timori e cecità che ci tengono lontano da consapevolezze che ci consentirebbero di essere più autentici, e le persone che abbiamo la possibilità di essere.

Evidentemente l’inconscio, risparmiandoci consapevolezze ed esperienze dolorose, in cambio di questa cecità sovente ci lascia una vita più tollerabile.


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