Vivere il dolore è un’esperienza totalizzante, si impossessa di noi, non solo attraverso l’emozione che ne viviamo nel presente, si impossessa anche del futuro che ci attende. Perché nel tempo del dolore che si vive si sta anche forgiano la fiducia che avremo in noi stessi e nel mondo. Nel dolore il tempo si svuota del passato e del futuro, per essere tutto nel presente di ciò che il dolore ci fa provare.
Il dolore ci consegna alla nostra fragilità. Ciò che ci rende differenti è cosa ne facciamo del dolore che viviamo. Se fosse vero che il dolore è la condizione per essere migliori, per imparare, per accrescere la nostra saggezza, il nostro pianeta avrebbe dovuto diventare un paradiso di pace, assennatezza e felicità. In realtà il dolore che si vive non genera necessariamente persone migliori, non produce valori più solidi e caratteri più temprati. Le cicatrici non bastano.
Occorre impararlo il dolore, per diventarne forti. Occorre voler e saper affrontare le proprie cicatrici per impadronirsene. Un grande filosofo dell’anima, Kierkegaard, ha scritto: “Soffrire è avere un segreto in comune con Dio.” Nel dolore vi è una possibilità, di espanderci, di scoprire sin dove possiamo arrivare con i nostri confini. Perché è nelle ferite che si scopre la resistenza che abbiamo, la tenacia, la forza di cui siamo capaci. Nelle ferite impariamo quanto siamo capaci di speranza.
La capacità di impossessarci del dolore richiede un’educazione delle nostre emozioni. Poiché non sono le emozioni della pena, della delusione, dello smarrimento a renderci migliori, a trasformare l’esperienza di sofferenza vissuta in un’eredità che ci aiuterà. Le emozioni sono una reazione che si impossessa di quel che viviamo come una ferita per tenercene lontani. Le emozioni demonizzano l’esperienza dolorosa, la trattano come un male e la trasformano in una prigione. Perché il dolore vissuto diventerà per le emozioni paura che un dolore simile si possa ripetere nel futuro. Il dolore provato per un insuccesso si trasforma nel carcere di una paura eccessiva di fallire.
Per questo, il dolore rimarrebbe sterile se lasciato al governo delle emozioni, se sottomesso al dominio della paura e di una fragilità vissuta come pericolo. Imparare il dolore è per questo una disciplina della gracilità, da applicare con la lente di ingrandimento della riflessione. Imparare il dolore significa comprendere come possa essere vissuto senza soffrirne in modo ingovernabile, senza temerne danni irrimediabili per la nostra identità e la nostra vita. Imparare il dolore non è però dotarsi di un pensiero semplicisticamente positivo: vedrai che andrà bene; pensa positivo! Non è convincersi che non esiste il dolore, o ignorarlo, che ci consente di impossessarcene, è semmai riconoscerne le possibilità, con familiarità e misura, soprattutto incontrando la sua offerta di renderci migliori.