Un’esperienza a cui è difficile sfuggire, presente nel nostro cuore in modi molto differenti, è l’agonismo, la competizione. Non vi è solo la competizione a cui si costretti dai contesti meritocratici frequentati, vi è anche quella, sovente sottile e sottotraccia, a cui si presta attenzione pur essendo liberi di evitarla.
In ogni agonismo, in ogni forma di competizione, si possono trovare due ingredienti:
- una convenzione (sociale, culturale, familiare) che stabilisce una graduatoria che allinea un merito, un valore, un meglio e un peggio, in un preciso dominio: sportivo, professionale, di status sociale, di abbigliamento e look, di followers, ecc.;
- la sensibilità verso una graduatoria a cui si sente di far parte (sportiva, professionale, sentimentale, ecc.), tanto da diventare preoccupazione, impegno, persino desiderio il modo con cui ci si sente collocati nella gratulatoria insediata nell’animo.
Competere, impegnarsi per primeggiare, è una funzione alimentata da una strategia psichica, ma anche neurobiologica, dedicata a consolidare e sostenere una relazione salda e affidabile con sé stessi. Perché nella competizione ci si misura attraverso la relazione con altri, si stabiliscono attributi della propria identità. E anche quando si crede di essere in gara “solo con sé stessi”, difficile che la personale graduatoria sia estranea a una genesi partorita dalle influenze a cui si è stati esposti, a partire da quelle genitoriali.
Si gareggia e si cerca di primeggiare per non rimanere indietro, per provare a sé stessi di possedere qualità solide e rassicuranti. Sovente più che vincere quel che si desidera è non arrivare ultimi, evitarsi di sentirsi in fondo alla scala dei meriti. Non occorre vincere, solo non perdere. Perché dal confronto agonistico si ottiene una definizione inequivocabile di sé stessi, un certificato del proprio valore.
Ma se l’agonismo ha una necessità psichica, è evidente quanto sia diversa la presenza di uno spirito competitivo nella vita di ciascuno. Tra gli aspetti che manovrano, sovente inconsapevolmente, un atteggiamento agonistico, vi sono:
- la personale dotazione di risorse o capacità, che inducono, oppure no, le aspirazioni a distinguersi in specifiche aree di competizione: sportiva, artistica, professionale, ecc.;
- l’intensità del bisogno di definirsi, di individuarsi, di sentirsi distinti e di valore;
- la capacità di tollerare la sconfitta, di essere dopo gli altri nella graduatoria.
Meno sono presenti questi ingredienti più facilmente ci si terrà lontani da una relazione competitiva e meritocratica. In altre parole, astenersi dalla competizione non è sempre il frutto di una scelta virtuosa e forte psicologicamente.
Perciò, nel gestire la componente agonistica non vi è un modo giusto a prescindere dalla specifica identità di ciascuno. Un approccio potrebbe essere quello di considerare come l’agonismo sappia coesistere nella propria vita con altri desideri, con altri bisogni che per essere raggiunti non richiedono competizione; sapendo integrare il proprio slancio agonistico con le altre componenti di sé serenamente e con benessere. All’opposto, sottrarsi ad ogni forma di competizione, se pur consente di evirare stress emotivi e ansie, non solo elude una conoscenza di sé più accurata, ma esclude anche esperienze che potrebbero arricchire moltissimo se si accettasse di essere messi alla prova.