Naturalmente sono molti gli aspetti che ci caratterizzano, che definiscono il perimento e il percorso della nostra identità. Tra di essi vi sono anche le domande che ci facciamo.
Ovviamente non si tratta di un criterio di qualità o di appropriatezza. Siamo differenti e questo non significa necessariamente che qualcuno sia meglio e altri peggio. Essere differenti significa, prima di tutto, che viviamo vite diverse nei modi di sognarle e affrontarle.
A questa nostra differenza esistenziale concorrono le domande che ci poniamo, e quelle che non ci poniamo. Le domande che potremmo porci e non vediamo, quelle a cui diamo una risposta certa e immediata, e ci basta così, e quelle che seguiamo e inseguiamo, mai paghi di quel che troviamo, perché sappiamo che vi è ancora dell’altro ancora da scoprire.
Così vi è una compagine, non piccola, di chi crede che sia logorante e inutile porsi troppe domande, per tormento superfluo che possono causare, soprattutto se rivolte a sé stessi. Che la vita sia “essere” e basta, immediatamente e spontaneamente, senza bisogno di indagarla, perché interrogarla significherebbe allontanarsene e perdere il contatto genuino con essa.
V’è anche, invece, da credere nella necessità di porsi delle domande. Non accontentarsi di quel che si pensa alla prima impressione o di quel che si sente spontaneamente. Credere nelle domande significa credere che vi sia una vita da conoscere, ma a cui accedervi non è facile, perché è profondità che non è raggiungibile con il sentire e il pensare di ciò che arriva agevolmente ai sensi e alla mente. Chi crede alle domande ascolta il figlio facendo soprattutto domande, affronta un litigio facendo e facendosi domande, nella tristezza o nell’ansia cerca cosa chiedersi e non solo lasciarsi trascinare del flusso emotivo.
Una buona domanda porta con sé la predisposizione a non considerare ciò che già si conosce meglio di ciò che ancora non si conosce. Poiché non è la risposta il suo pregio, ma la qualità e la profondità della ricerca su cui ci incammina, guidandoci nel vedere o pensare qualcosa che senza quell’interrogativo non avremmo visto o pensato
Naturalmente non bisogna abusarne, perché una buona domanda sovente rallenta, destabilizza, disorienta, apre varchi e cambia prospettive. Per questo non basta trovare buone domande da farsi (e già non è affatto banale), occorre anche essere capaci di accogliere lo spazio di scoperta che apre. Perché interrogandoci con coraggio potremmo trovare risposte che mutano le nostre convinzioni, le ragioni delle nostre scelte e forse persino il nostro futuro.
Per questo noi siamo anche il prodotto delle domande che ci facciamo, o non ci facciamo. Di quelle che evitiamo, di quelle di cui crediamo di sapere subito la risposta e anche di quelle, appassionanti e rivelatrici, a cui dedichiamo il tempo e l’impegno di una ricerca che non si accontenta, che scava ancora e ancora, perché sa che la risposta è in tutto ciò che si trova strada facendo. E se ne fa di strada con quella domanda.