“È banale” è sentenza, liquidazione nell’irrilevanza. Aggettivando la realtà, le idee o le esperienze come banali vengono depositate in una sorta di discarica, dove finisce la vita priva di originalità, singolarità, interesse.
Pare un imperativo di questo tempo stare alla larga dal banale, rifuggirlo, per collocarsi invece nell’unicità, nella differenziazione. Come se finire nel banale significasse spersonalizzarsi, diluirsi e impoverirsi nell’anonimato.
Eppure, per lo più, quasi sempre, la vita è banale. La banalità costituisce la stoffa, la trama della vita. Se il banale corrisponde a ciò che è già stato già visto, incontrato, capito; se è del banale l’assenza di originalità e una convenzionalità nelle scelte o nelle idee; se appartiene al banale la vita che non sorprende, ma si ritrova uguale a prima, allora nella sua natura più profonda, nell’alfabeto psichico a cui siamo sottoposti, nel tempo che abbiamo, che si trova dopo l’interminabile tempo che ci ha preceduti con le altre vite, allora sono proprio rare le occasioni in cui un pensiero non sia stato mai pensato prima, un fiore non sia già sbocciato in altri prati, un tramonto non sia già tramontato altre volte, un’emozione non sia già stata vissuta, un gesto non sia stato preceduto da uguali gesti.
Per quanto seducente l’originalità, siamo per natura esseri banali, perché siamo lo stesso e lo ripetiamo. Ma non per pigrizia di pensiero, per indolenza nel cercare unicità, ci appartiene la banalità perché è ciò che occorre alla vita per durare, per prolungarsi nel tempo. La vita si fonda sulla ripetizione, sulla cura di ciò che è uguale, che ci consente di saperci unitari nel tempo. Se fosse composta solo da originalità ed eccezionalità la vita sarebbe un caos, una sfuggente e insignificante collezione di eventi unici e isolati. Occorre il banale, ciò che si ripete uguale ed è stato già vissuto, per costruire durata, quindi significato, esistenza e legami.
Che pensare allora di tanta consacrazione dell’originalità e della svalorizzazione del banale?
Forse è l’ennesimo effetto di una fragilità epocale dell’io. L’io è diventata esperienza fragile perché staccata dalla sua appartenenza al noi, dell’essere parte di una comunità nella quale raccogliere doveri ed essere ricambiato con un legame di uguaglianza. L’io, la persona, privata di radicamento nel noi e nella comunità è consegnata a un futuro inaccessibile che costringe alla solitudine angosciata delle proprie risorse, delle proprie scelte.
Se dunque non rimane all’io che sé stesso, la banalità è il mondo del noi da cui si è allontanato, nel quale non trova più sé. Per non consegnarsi all’angoscia di questa solitudine, il bisogno di originalità assolve al tentativo di nobilitare l’io, il suo isolamento, la sua separazione. Così la vita che uguale si ripete per tutti diventa banale, allontanata nell’insignificanza. Come quando non riuscendo ad essere ciò che si desidera si squalifica e si distrugge l’oggetto del desiderio.
iscriviti alla newletter di ElseWhere clicca qui