Un potente meccanismo di sopravvivenza e di protezione personale è il pensiero che abbiamo della nostra identità, la narrazione di sé che ci accompagna e ci riflette. Come essere umani necessitiamo di quel che ci diciamo di essere. Tornare a noi stessi con il pensiero e i ricordi ci è indispensabile per costituirci. Così, quel che sentiamo e proviamo prende vita e coscienza nei nostri pensieri, diventando la nostra identità nell’atto di generare un pensiero su di sé.
Tra il materiale che maggiormente viene utilizzato, per estrarvi la scrittura interiore del proprio romanzo personale, vi sono le emozioni che si vivono. Quando ci tocca un’emozione siamo in un’esperienza di distinta partecipazione e coinvolgimento con la vita. Le emozioni risuonano in noi con timbri imperativi. Da credere facilmente che ad esse siano collegate le dimensioni più profonde e singolari della nostra identità. Su cui non avere dubbi, tanto è forte la loro manifestazione in noi. Per questo, sovente, le emozioni sono la via maestra che seguiamo per trarne un’idea di noi stessi e delle nostre caratteristiche. Quel che provo diventa quel che mi dico e convinco di essere.
Senonché in questo sodalizio tra emozioni e modi di raccontarci chi chiamo, protetto dal bisogno inconscio di salvaguardare la nostra autostima, si può insinuare un effetto alone. La possibilità che ci si attribuisca caratteristiche che crediamo di possedere solo per il fatto di viverne le emozioni. In altre parole, ci si potrebbe convincere, nell’idea di sé, che vivere un’emozione, con il suo intenso trasporto, significhi avere le capacità di ciò che l’ha suscitata. Poiché mi emoziona l’empatia quando l’assisto negli altri me ne credo anche capace. Oppure, poiché mi irritano i soprusi mi credo anche capace di non ricorrervi mai.
Le emozioni di certo sono porte aperte sulla conoscenza di sé, ma da prendere con attenzione, perché accanto, meno visibili, ve ne son altre da aprire, da attraversare per trovare parole su di sé che richiedono di non farsi abbagliare dalle emozioni che si vivono.
Un altro esempio. Ad una conferenza ascoltiamo la testimonianza che analizza la carenza di solidarietà e tolleranza della società. Ci indigna e ci rattrista ciò che ci viene descritto, sentendocene distanti. Tanto da crederci, attraverso l’alone di questo sentimento di disapprovazione che proviamo, anche portatori di capacità (gratificanti) di impegno sociale, di solidarietà, di generosità e inclusività.
Abbiamo un sentimento e crediamo di averne i valori. Senonché la misura di quanto si possiede un valore non è nei sentimenti e nell’indignazione che si vivono, ma nelle concrete e tangibili modalità di agire, di scegliere, di rischiare il fallimento cercando di realizzarlo.
Vi sono pensieri così alti e nobili da non produrre alcun impegno, ma bastano per sentirsi bene.