Uno stato psicologico che sembra ricorrere in questo tempo è la fatica.
La fatica è l’eredità di uno sforzo, di energie che abbiamo utilizzato. Che può lasciare l’animo arricchito o depauperato per quel di soddisfazione, gioia o gratificazione che ha potuto ottenere.
Vi sono fatiche e stanchezza che ci rendono felici, perché sono coronate in risultati gratificanti. D’essere arrivati al compimento di qualcosa: una salita in montagna, un apprendimento che ci ha arricchito.
Ma vi è anche la stanchezza psicologica di energie che non sono approdate a una destinazione, lasciandoci, per questa incompletezza, il vissuto di un logoramento che ci ha impoveriti. La pazienza che non è servita a nulla, il tentativo tenace naufragato nel fallimento, l’impegno eccessivo per il poco senso che lo giustificava.
La storia delle esperienze di fatica che viviamo, gratificanti oppure logoranti, lascia un’impronta nelle nostre energie psichiche, nelle nostre risorse rivolte ai desideri, con la convinzione, oppure no, che realizzarli dipenda dal nostro impegno. La gratificazione e il successo ricaricano le nostre energie, incentivano la nostra fiducia in un futuro di cui ci crediamo capaci. All’opposto, il susseguirsi di esperienze di una fatica arenata nella delusione di uno sforzo inutile lasciano in eredità un sentimento di impotenza. L’energia e la volontà che troviamo in noi ha il suo giacimento nelle esperienze soddisfatte o impoverite della fatica vissuta.
Tra le forme di fatica più deteriori, per le conseguenze che può lasciare nelle nostre energie, vi è quella che rimane sotterranea, che scorre carsica, senza mai assumere il volto palese di una stanchezza associata a precisi impegni e sforzi che si stanno facendo. Non è una fatica giustificata da desideri che stiamo realizzando. Non è localizzata in un compito da portare a termine, in uno sforzo circoscritto in un tempo e in un luogo. È una stanchezza del cuore, un indebolimento convalescente, senza sapere esattamente quale sia la malattia.
Come può essere la fatica di oggi, di essere costretti per tanto tempo in uno stato di incertezza e vulnerabilità, di avere ogni giorno l’evidenza di un pericolo. Non è una fatica che impegna i muscoli, o che ci costringe allo sforzo cognitivo di un compito difficile, è invece un sentire sotterraneo, impreciso e indeterminato, eppure ben presente a fine giornata.
La sua durata e la sua intangibilità possono usurare le energie, lo slancio del desiderio, per rintanare il cuore al minimo delle forze, sottraendogli la vitalità necessaria ai sogni. Quando a lungo si dedicano energie che ci costringono a vigilare, alla cautela, ne può nascere una stanchezza che svuota e impoverisce.
Per questo, forse, oggi il tema è meno la paura, perché abbiamo più conoscenza del pericolo ed è meno ignoto di quanto lo fosse a marzo. Forse è la stanchezza del cuore di cui ci dobbiamo occupare, perché non danneggi le energie che ci occorrono per costruire un futuro di vicinanze, inclusione e tolleranza.