Uno psicologo dal nome impronunciabile – Mihaly Csikszentmihalyi – ci ha fornito la descrizione più convincente dello stato psichico della felicità. Lo ha chiamato ‘stato di flow’.
È condiviso che la felicità non sia un continuum esperienziale ininterrotto della vita. Ma invece possieda confini, delimitazioni nel tempo. Un inizio e una fine. Subisce interruzioni e poi si ripresenta. Tanto che alcuni la credono possibile solo per brevi e occasionali istanti. A volte le interruzioni tra una felicità e un’altra durano un’intera vita.
Dunque, cosa caratterizza la felicità, nei suoi momenti più o meno protratti nel tempo?
L’oblio di sé stessi. L’esperienza di gioia e benessere che si vive è tale da generare una dimenticanza di sé. Ci si fonde integralmente in essa. La gioia percepita, per un tempo più e meno lungo, occupa così intensamente la mente da propagarsi ovunque, svuotandola di tutto ciò che sia altro da quell’esperienza positiva. Nel frangente della felicità si è solo nel qui e ora di quel che si sente. Il tempo, che ha in sé inesorabilmente passato e futuro, si dilegua. Cessano i pensieri di un altrove di impegni, di ricordi, di preoccupazioni. Si interrompe la percezione della coscienza di sé, che vigila per proteggerci, per assicurarci di essere efficienti, capaci, puntuali, amati.
In breve, quando si è felici si diventa un po’ idioti. È l’idiozia della leggerezza, della spensieratezza, di esserci per un poco dimenticati – felicemente – di noi stessi.
Forse per questo non può durare a lungo la felicità, perché la vita con le sue scadenze, i suoi ricordi, le relazioni a cui si è legati, con la fatica di curarci di come siamo e di quel che siamo, reclamano attenzione e impegno. Torniamo in noi e si dilegua la felicità.
(NB: Altro tema, ma non qui, è cosa ci consenta di avere nella nostra vita, più o meno frequentemente, momenti di felicità.)
Ma se la felicità è necessariamente episodica, non lo deve essere anche la serenità.
Perché la serenità riguarda l’assenza di cupe nuvole ad oscurare il cielo dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti. La serenità non è l’accadimento episodico di una combinazione perfetta di eventi che si trasformano in felicità. È coscienza, non incoscienza. Lo stato attraverso il quale si guarda sé e fuori di sé. È la nitidezza di questo sguardo, la capacità di non averlo offuscato e velato dall’inutilità e del superfluo; da emozioni nocive, da pensieri pesanti, di contenuti arruffati, approssimativi, superficiali, offuscati.
Nella serenità si trova l’essenzialità e la semplicità, di ciò che merita di essere pensato e vissuto, sentito e accolto. Non si tratta di liberarsi dal dolore o dal disagio, per con-fondersi con la gioia, ma di affrontare ciò che si vive, che sia anche un dolore o un dramma, con la sguardo calmo e pacato nel saper vedere con chiarezza cosa sia importante vedere. Sapendo trovare i modi per accoglierlo ed elaborarlo.
Se la felicità è spensierata e gioiosa assenza di sé, la serenità è invece una presenza a sé forte ed equilibrata, lucida e nitida. Per questo è piuttosto facile avere momenti di felicità, ma ben più difficile avere un cuore sereno nella tempesta.