Far parte del coro è controverso. Perché potrebbe significare la rimozione della propria identità per omologarsi a un canone dominante. Ma potrebbe essere anche l’evidenza di essere dalla parte del giusto, condivisa con molti.
Sicché, quando si vuole “uscire dal coro”, occasionalmente o sistematicamente, la domanda “perché?” non è affatto banale. Cosa realmente spinge a volerci distinguere, cercando distanza dall’uniformità dei più?
Sembrebbe facile la risposta: perché la moltitudine che pensa nello stesso modo ha rinunciato a pensare, si è appiattita nel conformismo. Una ragione nobile e apprezzabile, per avere benzina nel cercarsi una posizione propria, uno spazio di unicità e originalità.
E se invece non fosse tutto così cristallino? Se invece, nello spiegarci perché ci dissociamo, perché cerchiamo sempre in ogni esperienza la nostra differenziazione, trovando sempre cosa manca, dove vi sia un errore, intercettando carenze o minacce, così da poter dire: “Ho un’idea diversa.” “Faccio a modo mio”, se invece le ragioni che ci raccontiamo per essere fuori dal coro fossero fumo negli occhi? Prodotto dal nostro inconscio, per nasconderci i reali scopi, meno apprezzabili, se dovessimo riconoscerli.
Vi sono spinte centrifughe dall’omogeneità mosse da cicatrici, che hanno sperimentato l’invisibilità come dolore, come fatica, l’omologazione come perdita di sé. Così, la necessità di segnare il proprio territorio, la propria individuazione, possono essere animate da emozioni compromesse da esperienze di mancanza di riconoscimento. Ferite che esasperano il pericolo di massificazione, che drammatizzano l’uniformità, generalizzandone la minaccia, terrorizzate dal ripetersi dell’invisibilità, dell’anonimato. La realtà viene banalizzata e semplificata, rigettata con un’etichetta, per poter avere le ragioni per trovarsi un posto di visibilità e differenziazione, e non rischiare più di essere ignorati.
Sicché la differenza non è tra gli omologati e chi sta fuori dal coro. Perché in realtà nessuno è esente da un riesame analitico di quel che vive, e ogni persona possiede dosi di autonomia di pensiero e scelta, per distanziarsi da ciò che è comune. La differenza sono le ragioni che spingono a cercare una distanza, una differenziazione, da pensieri, modi o scelte che la maggioranza delle persone accetta.
Perché quando le ragioni scaturiscono dalle cicatrici, ciò che si sceglie di essere e di fare non riguarda prioritariamente il contenuto, né i fatti, ma la ripetizione di un canovaccio inconscio manomesso dalle esperienze.
Diverso quando il pensiero, esente dal gioco delle paure, si interroga e cerca se vi siano contenuti, considerazioni, prospettive, che non sono presenti nel pensiero o nelle scelte maggioritarie. Capaci allora di apprezzare quanto vi sia di condivisibile nella maggioranza e quando invece sia preferibile non farne parte.
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