Si sa, non abbiamo tutto il tempo che vorremmo. Così produciamo relitti, ritardi, lacune. Ci lasciamo indietro telefonate da fare, messaggi a cui rispondere, appuntamenti da prendere. Residui di vita che accumuliamo, senza esaurire quel che vorremmo o dovremmo.
Potrebbe essere questa, quella del residuo, dell’atto mancato, dell’eccedenza che non entra nei tempi che si hanno a disposizione, una storia della propria identità. Quel che si è non avendo avuto il tempo di esserlo.
Sappiamo che sarebbe riduttivo considerare il nostro tempo come un contenitore, uno spazio delimitato da giorni, ore e minuti di cui possiamo avvalerci. Fuori dal quale rimarrebbe ciò che non può entrarci. Perché tra il provvedere e il dilazionare, tra il fare adesso e sperare di poterlo fare più tardi, si narra e si mette in scena la personale visione del mondo, la personale e soggettiva interpretazione valoriale della vita, che si trasforma in tempo vissuto e in tempo mancante.
Certo, si dirà che il tempo si riempie di obblighi a cui non ci si può sottrarre, di urgenze che arrivano da altrove e si impongono nel proprio tempo. Che dunque, il tempo, il proprio tempo, non sia affatto una proprietà esclusiva, governata da una totale indipendenza di azione. Vero. Ed è proprio per questo che il proprio tempo è una narrazione identitaria, un’esperienza intersoggettiva e comunitaria, né solitaria e tanto meno autonoma. Il proprio tempo è storia di sé che si compone dei legami, degli obblighi, delle speranze che saldano il proprio tempo a quello degli altri.
Per questo la quesitone non è solo di tecnicalità. Di imparare tecniche che aiutino a usufruire del tempo: usare la to-do-list, programmare sistematicamente, distinguere urgente da importante. Come viene impiegato il proprio tempo e quel che invece ne rimane ai margini, residuale, riguarda la propria versione della vita. Non vi è sé, non vi è esistenza, non vi sono speranze, emozioni, scoperte, se non in un tempo e attraverso il tempo. Il tempo non è un mezzo per fare, come se ci fosse un contento da vivere, da collocare poi nel tempo. Il tempo che viviamo e come lo viviamo è la natura stessa di chi siamo. Il tempo che viviamo e quello che non riusciamo è la nostra autenticità.
Allora, ci si potrebbe mettere in relazione a cosa contiene il proprio tempo non come fosse uno strumento, da modellare con le giuste tecniche, ma cercando in esso chi sta accogliendo, quale persona vi è presente.
Ci si avvicina e ci si concilia con il proprio tempo senza uno sguardo che lo esternalizza (“non mi danno tempo”; “sono assalito dalle email”), come fosse uno strumento da saper governare. Perché si tratta di avvicinarsi a sé stessi, cercando di riconoscere ciò che si è, l’espressione di chi siamo, in quel è presente nel proprio tempo e in quel che viene lasciato alla deriva. Si appartiene al tempo che prende la propria vita, anche a quello stressato, frenetico, svuotato, anche a quello che non si ha il tempo di vivere.
Diventare il proprio tempo è allora un progetto di autenticità. E ogni autenticità inizia dall’accoglienza, dal riconoscersi in ciò che si vive, in tutto ciò che si vive. Condizione indispensabile per cambiare ciò che si vive.