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GianMaria Zapelli elsewhere

Un contributo psicologico
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Quel che rimane fuori dal nostro tempo, che non abbiamo tempo per fare

Quel che rimane fuori dal nostro tempo, che non abbiamo tempo per fare

Si sa, non abbiamo tutto il tempo che vorremmo. Così produciamo relitti, ritardi, lacune. Ci lasciamo indietro telefonate da fare, messaggi a cui rispondere, appuntamenti da prendere. Residui di vita che accumuliamo, senza esaurire quel che vorremmo o dovremmo.
Potrebbe essere questa, quella del residuo, dell’atto mancato, dell’eccedenza che non entra nei tempi che si hanno a disposizione, una storia della propria identità. Quel che si è non avendo avuto il tempo di esserlo.

Sappiamo che sarebbe riduttivo considerare il nostro tempo come un contenitore, uno spazio delimitato da giorni, ore e minuti di cui possiamo avvalerci. Fuori dal quale rimarrebbe ciò che non può entrarci. Perché tra il provvedere e il dilazionare, tra il fare adesso e sperare di poterlo fare più tardi, si narra e si mette in scena la personale visione del mondo, la personale e soggettiva interpretazione valoriale della vita, che si trasforma in tempo vissuto e in tempo mancante.

Certo, si dirà che il tempo si riempie di obblighi a cui non ci si può sottrarre, di urgenze che arrivano da altrove e si impongono nel proprio tempo. Che dunque, il tempo, il proprio tempo, non sia affatto una proprietà esclusiva, governata da una totale indipendenza di azione. Vero. Ed è proprio per questo che il proprio tempo è una narrazione identitaria, un’esperienza intersoggettiva e comunitaria, né solitaria e tanto meno autonoma. Il proprio tempo è storia di sé che si compone dei legami, degli obblighi, delle speranze che saldano il proprio tempo a quello degli altri.

Per questo la quesitone non è solo di tecnicalità. Di imparare tecniche che aiutino a usufruire del tempo: usare la to-do-list, programmare sistematicamente, distinguere urgente da importante. Come viene impiegato il proprio tempo e quel che invece ne rimane ai margini, residuale, riguarda la propria versione della vita. Non vi è sé, non vi è esistenza, non vi sono speranze, emozioni, scoperte, se non in un tempo e attraverso il tempo. Il tempo non è un mezzo per fare, come se ci fosse un contento da vivere, da collocare poi nel tempo. Il tempo che viviamo e come lo viviamo è la natura stessa di chi siamo. Il tempo che viviamo e quello che non riusciamo è la nostra autenticità.

Allora, ci si potrebbe mettere in relazione a cosa contiene il proprio tempo non come fosse uno strumento, da modellare con le giuste tecniche, ma cercando in esso chi sta accogliendo, quale persona vi è presente.

Ci si avvicina e ci si concilia con il proprio tempo senza uno sguardo che lo esternalizza (“non mi danno tempo”; “sono assalito dalle email”), come fosse uno strumento da saper governare. Perché si tratta di avvicinarsi a sé stessi, cercando di riconoscere ciò che si è, l’espressione di chi siamo, in quel è presente nel proprio tempo e in quel che viene lasciato alla deriva. Si appartiene al tempo che prende la propria vita, anche a quello stressato, frenetico, svuotato, anche a quello che non si ha il tempo di vivere. 

Diventare il proprio tempo è allora un progetto di autenticità. E ogni autenticità inizia dall’accoglienza, dal riconoscersi in ciò che si vive, in tutto ciò che si vive. Condizione indispensabile per cambiare ciò che si vive.

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