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GianMaria Zapelli elsewhere

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Saper immaginare la felicità

Saper immaginare la felicità

Sovente la felicità coglie improvvisa, quasi inattesa, che trasporta via da sé, avvolgendo e colmando il qui e ora, completandolo senza prima né dopo. Raramente la felicità è per sempre, perché sempre arriva il dopo, con i suoi contenuti che richiedono attenzione e preoccupazione.

Vi è, infatti, nella felicità, costitutiva, una precarietà, che convive con l’intensità dell’esperienza. La precarietà della felicità è nell’esserne subordinati, se ne è dominati. Non la si decide, ci si sente accadere nella felicità. Così, non possedendola, ma essendone posseduti, la felicità è sempre sull’orlo della sua perdita, per tornare nel tempo quotidiano della propria vita.

Per questa sua provvisorietà e aleatorietà vi è chi vi rinuncia precauzionalmente. Non potendola possedere, il cuore si protegge dal doloroso lutto di doverla perdere tenendosene lontano, cessando di sognarla e immaginarla, con cinismo o rassegnazione, o anche per troppo dolore patito.

Perché non vi è solo la felicità effettivamente vissuta, vi è anche quella che si immagina, che si sogna. Non le appartiene quel che si vive ma quel che si desidera. Sovente è una felicità declinata dopo un “se”: se avessi, se fossi, se potessi.

Di questa felicità immaginata vi è quella che fa seguire al “se” un possesso, la cui disponibilità ne consentirebbe la realizzazione: se avessi più soldi, se vivessi altrove, se avessi un lavoro più gratificante, se le persone sapessero comprendermi.

E vi è anche saper immaginare la propria felicità non come la realizzazione di un possesso che manca, non come il godimento nell’avere qualcosa, invece come un pensiero del “se fossi”, intimo, segreto, privato, nel quale si immagina chi potremmo essere, le parole che potremmo saper dire, gli sguardi che potremmo saper avere, i gesti che potremmo consentirci. Questo immaginario felice, nell’essere dialogo con la propria identità, devia dal quotidiano, sbanda, porta al pensarsi e desiderarsi anche altro di chi siamo e come siamo. Si immagina una trama identitaria che non ci appartiene ma che potrebbe appartenerci. Un’esistenza possibile di emozioni, di sentimenti, di scoperte.

Questa intimità conversativa con la felicità che si desidera potrebbe avere un potente e benefico effetto sulla propria vita. Perché in ciò che vediamo, immaginandoci felici, si delinea una strada, una direzione. La propria felicità fantasticata completa quel che vediamo di noi stessi, illuminando nel quotidiano la nostra ricerca.

Diversamente dalla felicità vissuta, che è immediatezza di quel che si vive, senza pensiero, ma puro fluire emotivo, la propria felicità immaginata è pensiero che si inoltra nel nostro desiderio. È un viaggio che guarda altrove chi siamo, spingendosi a interrogarci su quel che viviamo e come lo viviamo.

Se la felicità vissuta è esperienza di approdo del desiderio, che fa perdere peso a sé e al tempo, nella felicità immaginata vi è la tensione che trasporta sé a prendere peso nel possibile. A patto di avere abbastanza speranza e non temere di sognare.

 

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