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GianMaria Zapelli elsewhere

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Nella vicinanza dell’infinito

Nella vicinanza dell’infinito

“Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre. […] La cagione di questi sentimenti è quell’infinito che contiene in se stesso l’idea di una cosa terminata.” (Leopardi).

In ciò che si spegne – un desiderio, un legame, un’attesa, un’abitudine – vi è un’uscita dal nostro tempo, un abbandono dal tempo che viviamo e ci appartiene. L’esperienza di qualcosa che si interrompe ci colloca nella prossimità di un altro tempo, quello dell’infinito. Perché in ciò che termina vi è il per sempre. In ciò che si conclude sperimentiamo che non sarà più. Un’esperienza che può essere sovente di dolore, ma che ci rende anche prossimi a ciò che è più distante ed estraneo alla nostra condizione umana: l’illimitato. La percezione che sarà per sempre l’assenza, la mancanza, è tormento, ma anche malinconia struggente, che trova in questa mancanza un sentimento di sconfinato.

Certo, non sono da cercare intenzionalmente esperienze in cui sperimentiamo qualcosa che finisce. Ma l’esperienza di qualcosa che ci lascia per sempre – un oggetto, un luogo, un’amicizia, un sogno – non porta con sé il dolente vissuto della perdita, di ciò che non c’è più, può anche essere occasione di vicinanza con un’esperienza che ci è preclusa, ma pur ne sappiamo l’esistenza: l’infinito, nelle cui braccia è avvolto ciò che non è più.

Forse allora la conclusione per sempre, il distacco per sempre da qualcosa, permettono, magari a malincuore, di sperimentare qualcosa di assoluto della propria natura umana, perché sono esperienze che, ancorché si vorrebbero evitare, possono insegnare il valore dei nostri confini, di essere sempre finiti, limitati. E di poter avere l’infinito solo come ciò che possiamo solo intercettare.

Vi sono modi e scelte, vi sono azioni e comportamenti che sembrano possedere la protervia dell’infinito, perché non si curano delle conseguenze, come si potesse sempre prima o poi, ovvero illimitatamente, porvi rimedio. Vi sono genitori che non educano al finito, ma lasciano che i figli credano nell’infinito, nella possibilità di avere a disposizione ogni alternativa. Vi sono donne e uomini che vivono come fossero nell’infinito, perché usano le risorse del pianeta, il loro tempo e quello degli altri, le loro energie, come se fossero infinite. Oppure persone che credono che tutto sia qui ed ora e non si debba pensare a cosa si sta costruendo nel qui e ora del domani. Anche questo è un pensiero dell’infinito, che non vive il sentimento di un limite, di un confine, oltre il quale l’infinito è solo quello di qualcosa che non vi è più.

Forse potrebbe essere benefico imparare il significato e il valore della perdita, perché ci aiuterebbe e ci educherebbe al saperci estranei all’infinto e a riconoscere il limitato finito in cui ci troviamo e di cui dobbiamo aver cura.

 

 

 

 

 

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