L’invidia ha un raggio limitato, non si allontana da noi.
Un sentimento difficile da ammettere. Perché possiede due ingredienti inquinanti: il fastidio di uscirne perdenti da un confronto con altri e il moto ostile verso chi è vincente rispetto a noi. Un’aggressione, per altro, quasi mai a viso aperto.
Eppure è difficile sfuggire al morso dell’invidia, al sentimento di biasimo, critica o disapprovazione, che suscitano in noi alcune persone.
E sono proprio i destinatari dell’invidia a rivelarne le sue ragioni, le sue necessità. Perché l’invia non si rivolge a chi è molto lontano da noi, a chi possiede qualità incommensurabili con le nostre, un successo o una posizione sociale per noi irrealizzabile. Per questi semmai vi è ammirazione.
Il malessere dell’invia tocca chi ci è prossimo, i simili a noi. I sintomi dell’invidia si manifestano verso persone dal ruolo, dallo status, dalla vita non distanti dai nostri, che godono di qualità, opportunità, apprezzamento, che anche noi potremmo avere l’ambizione di raggiungere. E’ il confronto con altri che sentiamo alla pari che ne mette in moto l’acido. Nel rapporto con chi potrebbe essere un nostro specchio inesorabile e severo, con capacità affini alle nostre, scelte che avremmo potuto fare anche noi, traguardi raggiunti a cui anche noi aspiriamo.
Dagli studi neuroscientifici sappiamo che con l’invidia si attivano specifiche strutture della corteccia prefrontale: quelle collegate al dolore fisico e sociale. Le stesse regioni cerebrali che si accendono nelle occasioni nelle quali viviamo un sentimento di esclusione, di solitudine comunitaria. Possiamo allora riconoscere nell’invidia ragioni protettive, un sistema di allarme. Avverte di un rischio che stiamo correndo, rimanendo un passo indietro rispetto a chi ci è simile: il rischio dell’esclusione, della perdita di apprezzamento sociale, rispetto ad altri a noi uguali che ne stanno ottenendo in misura maggiore. Poiché l’appartenenza sociale non è insensibile al merito, l’invidia è un allarme che ci segnala che stiamo correndo un rischio di irrilevanza sociale.
Ma i nostri meccanismi di difesa non si occupano delle loro conseguenze. Come elaboriamo l’invidia che proviamo non li riguarda. Possiamo allora macerarla, rimanerne paralizzati nel suo sapore agro, alimentando ostilità verso chi ci suscita malessere. Oppure possiamo trarne il suo buono: l’energia per dedicarci a traguardi o cambiamenti che ci consentono di raggiungere ciò che invidiamo negli altri. Se ne siamo capaci, allora l’invidia non è più un sentimento dannoso o riprovevole, ma ci indica una strada, ci indirizza verso esperienze che sono alla nostra portata, verso evoluzioni di cui ne abbiamo il potenziale. Osservare chi invidiamo, placando l’ostilità, ci potrebbe far comprendere chi abbiamo la possibilità di diventare, in meglio.