L’io, per percepire la propria solidità, la propria individuazione, ha bisogno di terreno, meglio, di territorio. Una porzione di terra esistenziale che ha proprietà riconoscibili, movimento e libertà possibili. Un appezzamento di cui sentirsi padroni e autori, una geografia di latitudini precise per il proprio esistere.
Così facilmente il confine dell’io, di ciò che sentiamo connesso con la nostra esistenza e la nostra identità, si estende al “mio”. Mio definisce uno spazio concreto, tangibile di proprietà esclusiva. Un’estensione di sé che si impossessa di oggetti e di suolo. I miei abiti, i miei dischi, il mio cellulare, la mia casa. Ma non ci si ferma al possedimento fisico, è anche proprietà che delimita uno spazio di manovra e di autonomia. Le decisioni che spettano a me. L’orto del mio ruolo che coltivo come voglio: genitore, capo, professionista.
Abbiamo bisogno del mio per ancorarci e avere terreno, per possedere un perimetro nel quale siamo esenti da adattamenti, compromessi, riduzione del nostro io all’Altro. Ciò che è mio definisce e consente una distanza, una differenziazione, un territorio nel quale ci esteriorizziamo, usciamo da noi stessi, rimanendo inalterati.
Mio è una grandezza sovente dai confini inviolabili, suscettibili, arroccati.
Avere un mio che espande l’io è un bisogno ineludibile. L’io interiore e intimo non basta a sé stesso, reclama evidenze. Diverso nelle persone è il modo con cui prende forma, i contenuti che lo riempiono e i modi con cui viene messo in relazione agli altri. Questo è mio e deve esserci la mia autorizzazione per usarlo o impossessarsene.
Vi sono ideologie, pensieri e religioni che sostengono di sbarazzarsi di tutto ciò che ci appartiene e consideriamo mio. Eppure anche nella radicalità della rinuncia ad ogni mio si tiene un rosario, un saio, un libro. Mio ridotto e costretto al minimo, ma non estirpato.
Perché ciò che è mio non definisce solo una distanza protettiva, un orto intoccabile, in cui trincerarsi. Ci occorre qualcosa di mio per essere insieme agli altri, per sentirci comunità, ovvero portatori di un munus, un dono. Se non ho nulla di mio non ho nulla di tangibile da donare. Non ho suolo da condividere. Se non ho un orto non ho verdura che posso decidere di offrire.
Così la differenza non è tra avere un mio che completa l’io, ma quali siano i bisogni che ne producono lo specifico contenuto – quel che ho bisogno di avere e sapere mio – e i bisogni che ne producono le mura difensive – come proteggo e rendo inviolabile, oppure no, ciò che considero mio -. Vi sono infatti territori dove mio significa possibilità di condividere e altri dove mio significa esclusione.
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